“Lasciateci vivere!” (1939) di John Brahm

di Renato Venturelli.

John Brahm è rimasto ancor oggi uno dei più trascurati tra i registi mitteleuropei trasferitisi a Hollywood dopo l’avvento del nazismo, ricordato a lungo solo per l’originale struttura a flashback di Il segreto del medaglione e citato da qualche storia dell’horror per la sua versione di The Lodger. I suoi meriti sono stati spesso attribuiti ai direttori della fotografia con cui ha lavorato, a cominciare da Lucien Ballard, evitando così di considerare la sua personalità anche autoriale e la sua propensione a rappresentare efficacemente in termini visivi personalità contorte: in “L’età del noir” osservavamo anche come costituisca uno dei registi che in modo più esemplare hanno anticipato il noir degli anni ’40 già nell’ultimo scorcio del decennio precedente, oltre ad aver diretto almeno due autentici gioielli come Nelle tenebre della metropoli e appunto Il segreto del medaglione.

Nato Hans Brahm, attivo nei teatri tedeschi degli anni venti, nipote del produttore teatrale che aveva lanciato Max Reinhardt, Brahm era arrivato a Hollywood nel 1937 e aveva subito diretto un pugno di film che fanno da trait d’union del noir tra i due decenni.

Counsel of crime (1937) racconta come un giovane avvocato idealista entri nello studio legale dello zio brillante e spregiudicato, scontrandosi con lui: la vicenda ha sottofondi banalmente melodrammatici, ma quello che ci interessa è come il film sia attraversato dal motivo ricorrente di sbarre e ombre che incombono sui protagonisti, e in tre o quattro scene li opprimono. Anche il finale è beffardo, col secondino che sghignazza davanti all’uomo che ha sempre fatto trionfare la menzogna in tribunale e si ritrova adesso condannato per aver detto per la prima volta la verità: anche se, in questo caso, più che una visione cupamente noir dell’assurdo della vita, c’è di mezzo un convenzionale impianto moraleggiante.

Tra i protonoir anni ’30 viene citato a volte il carcerario Penitentiary (1938) per le sue inquadrature “espressioniste”, anche se in una tarda intervista a “Cinematographe” il regista terrà a precisare che il suo lavoro non ha nulla a che spartire con l’espressionismo.

Un altro film molto citato come noir è Inferno ai tropici (Rio, 1939) che in realtà non lo è affatto. Nel raccontarci la storia di un ricco e glaciale finanziere (Basil Rathbone) condannato ai lavori forzati in Sudamerica, la fotografia di Hal Mohr ha però alcuni momenti che possiamo associare alla futura iconografia noir. La protagonista femminile Sigrid Gurie, lanciata come risposta norvegese a Greta Garbo, si esibisce ad esempio in un night sfilandosi eroticamente un guanto come poi farà Rita/Gilda, mentre la scena in cui va a trovare il marito in carcere è tutta imperniata su una grata che separa i loro volti con giochi di luce e ombra: e la resa dei conti finale, con Rathbone che compare all’improvviso davanti alla moglie, è interamente scandita dalla luce intermittente dell’insegna al neon del locale notturno.

Brahm dimostra insomma in tutti questi film di essere propenso a risolvere i momenti drammatici sottolineando quelle soluzioni visive che saranno poi tipiche del noir, anche se per ora rientrano in una più tradizionale illuminazione dei conflitti drammatici. Diverso sarà invece il caso di Lasciateci vivere! (Let Us Live!, 1939), realizzato sulla scia di Sono innocente di Fritz Lang ma ispirato a un caso reale avvenuto in Massachussetts, e sicuramente da considerare già un vero e proprio noir.

Henry Fonda vi interpreta un tassista ingiustamente condannato a morte per una rapina, mentre la sua compagna cerca disperatamente di salvarlo in extremis dall’esecuzione scoprendo i veri colpevoli. La soluzione finale non avrà però nulla del consueto happy end, perché l’uomo che esce dal carcere sarà un vero e proprio morto che cammina, un giovane proletario che era entusiasta della vita e ora si ritrova spezzato interiormente, senza più alcuna fiducia né negli uomini né nelle istituzioni.  Si tratta di una visione completamente nera, scandita dalla fotografia di Lucien Ballard in un crescendo di immagini improntate a una cupa claustrofobia, tra sbarre, ombre portate, volti disperati che affiorano dal buio.

Lasciateci vivere! è uno dei film degli anni ’30 che portano un autentico rovesciamento, sostituendo al dinamismo sociale – e al suo sostanziale ottimismo anche in vicende drammatiche – il punto di vista individuale di chi si ritrova stritolato dall’ingiustizia del sistema, dall’indifferenza delle persone e dal caso che si è abbattuto contro di lui: un film che confermerebbe la tesi per cui il noir stava già per imporsi alla svolta del decennio, ma venne poi ritardato nella sua affermazione a causa dell’entrata in guerra degli Stati Uniti.

 

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https://www.filmdoc.it/2020/12/prison-train-1938-di-gordon-wiles/

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