“Quick Millions” (1931) di Rowland Brown

di Renato Venturelli.

“Certo che questi ricchi sanno come organizzare bei matrimoni…”. “Ma noi gangster abbiamo migliori funerali!”. Si conclude con questo scambio di battute “Quick Millions”, film d’esordio di Rowland Brown, uno dei più originali tra i registi della Hollywood anni ’30, impostosi alle soglie del decennio con una trilogia che parlava in modo tagliente della malavita e della società americana, ma poi uscito improvvisamente di scena nel 1936.

Qualcuno dice che aveva preso a pugni un dirigente della MGM, qualcun altro che era troppo amico di gangster reali, o che era in odore di comunismo: di sicuro Brown fu emarginato di colpo, ma il suo nome torna periodicamente ad attrarre chi si occupa di quel che in quel decennio poteva essere e non è stato.

Quando la Fox gli permise di dirigere la sua sceneggiatura di “Quick Millions”, Brown aveva appena trent’anni e aveva scritto un film di buon successo come “The Doorway to Hell”. Era considerato una delle promesse di Hollywood e in quel momento i film sul gangsterismo stavano trionfando.

“Quick Millions” racconta la storia di un camionista (Spencer Tracy) che intuisce come ottenere soldi e successo, organizza un sindacato per imporre “protezione” alle imprese, fa rapinare i loschi arricchiti che avevano organizzato una cena in suo onore, poi si lancia nel mondo dell’edilizia: a fermarlo sarà la sua pretesa di entrare definitivamente nel mondo rispettabile, sposando la figlia di un ricco imprenditore al di fuori del suo giro criminale.

Il film ha un bel dinamismo e molte sequenze che dimostrano inventiva:  come scrive Don Miller, Brown ha un suo stile, pur non essendo certo uno “stilista”. Tracy si presenta in un incipit provocatorio, incastrando il parafango di un’auto col suo camion e poi aggredendo un poliziotto. Un omicidio commesso da George Raft viene girato interamente con la macchina da presa fissa sul pavimento, sotto il tavolo della sua vittima. Anche l’uccisione di Raft privilegerà un unico punto di vista, mentre una celebre scena in cui lo stesso Raft si esibisce ballando viene inquadrata estrosamente dall’alto.

Il momento in cui Tracy capisce di essere escluso dal mondo perbene cui aspira viene risolto in modo sintetico: durante un ricevimento in cui s’è presentato elegantissimo, la ragazza che vorrebbe sposare gli presenta il proprio fidanzato, quindi il fotografo lo scosta lateralmente “perché finirebbe nell’inquadratura” (per lui non c’è posto). Anche la scena in cui viene ucciso è risolta in modo sintetico ed efficace. Mentre si trova seduto in auto accanto al suo tirapiedi (Warner Richmond), quest’ultimo gli punta la pistola alla costola: “togli il gomito dal mio fianco” dice Tracy; e l’altro “ma non è il gomito”. La tendina del finestrino s’abbassa, udiamo il colpo di pistola e poco dopo il cappello di Tracy viene gettato in strada: rotolerà sul sagrato della chiesa dove si celebra il matrimonio della ragazza ricca che voleva sposare e per cui s’è rovinato.

Le recensioni d’epoca furono in gran parte positive, il New York Times scrisse che il film era “exceedingly well directed and ably acted”, ma il pubblico della snack preview rispose freddamente, la Fox rinunciò al lancio pubblicitario e gli incassi furono limitati, nonostante le ottime accoglienze critiche.

Il motivo principale di questo mancato successo sta probabilmente nell’approccio di Brown, fondato sull’intelligenza tagliente più che sull’azione impetuosa. “Il suo lavoro era impersonale come un rapporto di polizia e freddo come il referto di un coroner” arriva a scrivere Don Miller, pur riconoscendogli uno stile personale, una cinepresa mobile ma non invadente, la propensione per angolazioni incisive delle inquadrature.

Ma i grandi gangster dell’epoca, dal debordante James Cagney di Nemico pubblico, agli stessi Paul Muni o Edward G.Robinson, avevano una dimensione molto fisica ed aggressiva, in film che puntavano largamente su sparatorie, inseguimenti d’auto, violenza esplicita.

Spencer Tracy ha invece una recitazione molto controllata e sarcastica, e il suo personaggio è fondato più sull’intuizione acuta che sull’impeto dinamico. “Ho una tonnellata di cervello, ma sono troppo nervoso per rubare e troppo pigro per lavorare”, è la sua famosa frase. E il film è una lucida disamina della società americana fondata sullo stretto connubio tra imprenditoria e gangsterismo. “Il crimine è un business come gli altri”: Spencer Tracy sceglie di fare il gangster perché ha capito come funziona la società capitalista, e “Quick Millions” si distacca dai gangster film in voga per questo suo sguardo freddo e tagliente.

Non conosciamo con certezza il coinvolgimento politico personale di Brown, che pure qualche anno dopo stava per portare sullo schermo un libro di forte impegno come “Thieves Like Us” di Edward Anderson (aveva già l’assenso di Joel McCrea), poi trasposto da Nick Ray e quindi da Altman. Ma di sicuro il sorprendente “Quick Millions” – che Carlos Clarens suppone sia stato politicamente attenuato dalla collaborazione di Connnery Tennet alla sceneggiatura e di John Wray ai dialoghi – costituisce una delle principali anticipazioni di quello sguardo “di sinistra” sul mondo del crimine e sulla società americana che sarà una delle componenti principali del noir di fine anni quaranta.

 

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