Jonathan Latimer: “The Lady in the Morgue” (1938) di Otis Garrett

di Renato Venturelli.

“Ho incontrato una sola volta Dashiell Hammett: era completamente ubriaco e lo stavano portando a braccia su un ascensore del Beverly Wilshire Hotel…”. Jonathan Latimer è uno degli scrittori più caustici dell’hardboiled anni ’30, un ottimo dialoghista senza le ambizioni letterarie di Hammett, Chandler o Cain, ma con una vena dissacrante particolarmente in sintonia con la tendenza del cinema dell’epoca a mescolare poliziesco e commedia.

La sua operazione consiste in buona parte nel prendere luoghi comuni ormai stilizzati (il detective privato, il suo individualismo disincantato, l’alcolismo, la battuta facile, la similitudine fantasiosa) e svilupparne in modo parossistico l’aspetto beffardo, pur rimanendo fedele a una struttura tradizionale dell’intreccio. Questa combinazione di mystery e black comedy porta nel genere una spensieratezza, un ritmo e una folle vitalità che la critica gli ha sempre riconosciuto, ma che a volte trasmette anche sensazioni meno superficiali, quasi una visione disincantata dell’assurdo del mondo.

Il suo primo romanzo (Murder in the Madhouse, 1934) è ambientato all’interno di un manicomio, il secondo (Headed for a Hearse, 1935) muove dal braccio della morte di un carcere, il terzo (The Lady in the Morgue, 1936) prende il via tra i giochi macabri di una morgue, il quarto (The Dead don’t Care, 1938) verte su una famiglia di dissoluti miliardari. La scelta di luoghi chiusi o universi a sé serve forse a fargli esibire uno dei suoi migliori talenti: chiudere i personaggi in una stanza e imprimere ritmo all’azione attraverso dialoghi scoppiettanti. Così facendo, trasmette però anche l’immagine di un’America frantumata e deformata, dove la prospettiva sul mondo diventa quella di un manicomio, di un braccio della morte, di un obitorio: luoghi lugubri e terminali, dove l’attivismo scanzonato del detective si muove tra individui ridotti a larve grottesche o corpi meccanici.

L’esempio migliore si ha in The Lady in the Morgue, considerato il suo capolavoro: e il primo capitolo si svolge in una notte di caldo soffocante presso un obitorio, dove sorveglianti, giornalisti, detective ingannano il tempo scommettendo sui cadaveri che affollano il sotterraneo, in mezzo a corpi di uomini e donne, giovani e vecchi che circondano i protagonisti, definendo un universo senz’anima su cui Latimer non esercita mai un giudizio morale, limitandosi a metterne in scena la pura meccanicità.

Dai grandi dell’hardboiled ha sempre cercato di prendere le distanze. “Non trovo nessuna traccia di Hammett nei miei scritti: i nostri stili sono molto diversi e lui era più vicino al realismo” diceva, aggiungendo di detestare L’uomo ombra e di preferire su tutti Piombo e sangue. Quanto a Chandler, suo vicino di casa a La Jolla, sosteneva di averlo letto solo dopo il 1940: del resto Chandler sembra che non lo sopportasse, ritenendolo dozzinale e volgare, secondo quanto si intuisce dalle lettere.

Semmai, Latimer dice di essere stato influenzato da Hemingway e Cain, ma soprattutto arriva dalla formazione giornalistica di quel periodo, in quanto aveva collaborato a due quotidiani di Chicago, conosceva (a suo dire) gangster come Capone o Bugs Moran, ed era insomma cresciuto alla scuola tutta sintesi e ritmo del giornalismo dell’epoca.

Nella produzione noir degli anni ’40 sarà uno degli sceneggiatori più attivi, quasi sempre autore esclusivo delle sceneggiature (“non mi piace collaborare e detesto riscrivere cose di altri”). Ha scritto film come La chiave di vetro (Stuart Heisler, 1942), Notturno di sangue (Edwin Marin, 1946), Il verdetto (Lewis Allen, 1949) e ha collaborato a lungo con John Farrow, da Il tempo si è fermato (1948) a La notte ha mille occhi (1949) o La sconfitta di Satana (1949). Dice anche di aver tratto da Piombo e sangue di Hammett una sceneggiatura per la Paramount (1940), ma che non fu mai girata.

Negli anni ’30, invece, vennero portati sullo schermo dalla Universal tre suoi romanzi con l’investigatore Bill Crane, per la serie “Crime Club”: The Westland Case (1937), Lady in the Morgue (1938), The Last Warning (1938, da The Dead Don’t Care).  Si tratta di produzioni a basso costo interpretate da Preston Foster, che sprecano molta dell’originalità di Latimer limitandosi a racconti concisi e brillanti, con gran ritmo, battute a raffica e movimento continuo.

Ma su un numero di “Focus on film” del 1970 Don Miller iniziò proprio con questo film la sua scelta dei migliori B-movie americani: in particolare apprezza una compattezza “rara anche nei prodotti top-budgeted del periodo” e il modo in cui Garrett, ex-montatore, scivola da una sequenza all’altra con rapide panoramiche laterali, evitando le consuete dissolvenze e ottenendo una particolare fluidità. E Stuart Kaminsky, trent’anni fa, mi diceva di amare non solo Latimer come ottimo sceneggiatore televisivo oltre che cinematografico, ma anche i tre B-movie tratti dai suoi romanzi.

“Non avevo ancora l’esperienza per poter scrivere la sceneggiatura, così mi affidai a loro: per il budget che avevano, hanno fatto perfino bene” diceva lo stesso Latimer. E i tre film costituiscono l’ennesima conferma del modo in cui l’hardboiled viene per lo più interpretato nel decennio, ben lontano da quello che accadrà invece negli anni ’40, quando diventerà lo spunto per vicende cupe e tortuose in cui l’identità del protagonista rischia continuamente di smarrirsi.

Nel gran dinamismo superficiale di The Lady in the Morgue, però, c’è qualcosa da segnalare anche nel nostro campo. Ed è la fotografia di Stanley Cortez, all’epoca giovane cameraman reduce dalla realizzazione con Slavko Vorkapich di Scherzo (1932), un film sperimentale che lui stesso definiva “cubista”. Quando può, Cortez si sbizzarrisce anche qui in qualche elegante gioco visivo: lunghe ombre proiettate sui muri, una scena con i personaggi soffocati dalle ombre portate, un tentativo di omicidio tutto raccontato con stile “espressionista” attraverso le ombre. Piccole anticipazioni di quella che sarà la fotografia del film noir, ma che per ora restano episodiche. Quattro anni dopo, Cortez sarà candidato agli Oscar per L’orgoglio degli Amberson.

 

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