“Prison Train” (1938) di Gordon Wiles

di Renato Venturelli.

Gordon Wiles è noto soprattutto per The Gangster (da noi Violenza, 1947), uno dei più originali tra i B-noir anni degli ’40, dove l’attesa della morte da parte di un piccolo boss di quartiere si svolge in larga parte negli ambienti luminosi e geometrici di una gelateria alla Edward Hopper, tra pavimenti e soffitti a quadri bianchi e neri. Scenografo per formazione, Willis è particolarmente attento a creare una rigorosa atmosfera visiva, avvalendosi del contributo di un grande direttore della fotografia come Paul Ivano, ma insinua anche una dilatazione dei tempi narrativi che dimostra una sua personalità sul piano drammaturgico, pur mantenendosi entro i limiti di una produzione low budget targata King Brothers.

La sua carriera era del resto cominciata con un Oscar per l’art direction di Transatlantic (1931), uno dei film di William K.Howard solitamente citati quando si parla delle anticipazioni di elementi noir nelle produzioni anni ’30. Autore di altri crime del decennio, come Lady from Nowhere con Mary Astor o L’ora che uccide della serie Charlie Chan, Wiles ha però diretto soprattutto un piccolo e sgangherato low-budget, Prison Train (1938), destinato a incuriosire chi vede una vocazione noir già in certi film degli anni precedenti la guerra.

Anche in questo caso Wiles punta molto sull’attesa della morte da parte del protagonista, ma non si tratta di un’analogia banalmente tematica con The Gangster, quanto di una scelta di regia volta a creare un’atmosfera bizzarra di tensione attraverso le immagini e quello che sembra un rimando assolutamente consapevole all’espressionismo tedesco. A questo proposito, ci si è anche chiesti se Wiles avesse visto lo straordinario Das Stahltier (1935) di Willy Zielke, ma William Everson trova improbabile che fosse così noto un film di propaganda nazista di cui era stata vietata l’uscita americana.

Inizialmente, Prison Train sembra allinearsi ai cliché del filone gangsteristico, attraverso il personaggio di Frankie Terris, un criminale pronto a rimediare alla fine del Proibizionismo trovando un nuovo settore in cui far soldi facili: quello del racket dei “numbers”, le lotterie clandestine. Proprio nel momento in cui pensa di lasciarsi alle spalle i suoi affari criminali, Frankie finisce però per uccidere un ragazzo che gli aveva corteggiato la sorella, e che è figlio di un boss rivale. Condannato, viene così caricato a bordo di un treno con altri detenuti per essere trasferito ad Alcatraz, ma capisce che durante quel lungo viaggio ferroviario il suo rivale cercherà di ucciderlo per vendicare la morte del figlio.

La seconda parte del film (conciso come tutti i low budget dell’epoca: poco più di un’ora) riguarda così le tensioni del viaggio in treno, ma il racconto – spesso maldestro e sbrigativo – interessa soprattutto per le atmosfere che Wiles cerca di creare, proprio come accadrà in The Gangster.  Già la prima mezz’ora è del resto improntata a una fotografia a base di sbarre, grate, ringhiere e cancelli che proiettano le loro ombre sui personaggi e li ingabbiano anche nelle stazioni, con inquadrature dall’alto, angolazioni eccentriche, volti illuminati violentemente, improvvisi primi piani, scarti bruschi di montaggio che stanno a metà tra il rifiuto arty della naturalezza “invisibile” hollywoodiana e la ruvidezza della produzione a basso costo.

La sequenza in cui il protagonista pedina il corteggiatore della sorella tra strade e vicoli della città ha comunque espliciti rimandi a quello che veniva definito lo stile espressionista, mentre il successivo pestaggio viene largamente raccontato attraverso ombre proiettate sui muri o primi piani allucinati. Il processo verrà poi messo in scena con pochissimi dialoghi e un commento musicale ripetitivo, abolendo i passaggi del tradizionale dibattimento: è un processo assolutamente antinaturalistico, dove i personaggi sembrano sotto ipnosi, in un’astrazione che va al di là di una possibile visione soggettiva da parte del protagonista. Inevitabile pensare ai processi sviluppati poi ulteriormente in noir come Lo sconosciuto del terzo piano e altri titoli degli anni ’40.

Tutta la parte in treno dilaterà poi la suspense, concentrando frettolosamente l’azione conclusiva in pochi minuti, e alternando invece scene a bordo dei vagoni, primi piani che non scandiscono le emozioni dell’azione ma diventano ossessivi nei loro tempi prolungati, così come le ripetute inquadrature stock shots delle ruote del treno: due elementi, questi ultimi, di cui si lamenterà la critica d’epoca, condannando il rallentamento del ritmo narrativo.  In realtà, il maggior motivo di interesse di Prison Train sta oggi proprio in questa sua dimensione quasi onirica, in questo far scivolare ogni possibile incalzare action-thrilling dell’azione in un incubo dai tempi dilatati, come accadrà poi a tanti B-noir della seconda metà anni ’40.

Tra gli interpreti di un cast molto “B”, spiccano poi due presenze particolari. Una è la quasi esordiente Dorothy Comingore nel ruolo di Louise, la sorella del protagonista dal temperamento ingenuo e dalla recitazione volutamente sommessa e monocorde: qui appare ancora con lo pseudonimo di Linda Winters, ma sarà la seconda moglie di Kane in Quarto potere di Orson Welles, prima di essere travolta dalla furia maccartista per le sue posizioni di sinistra, restare disoccupata, finire in clinica psichiatrica e quindi morire vittima di alcolismo e crisi depressive. L’altra presenza da segnalare è quella di Clarence Muse, il cameriere afroamericano che è in realtà un complice del gangster vendicativo. Nella scena in cui prepara sul treno l’omicidio del protagonista, Muse serve bevande drogate ai due poliziotti di guardia, quindi per facilitare il loro sonno comincia a cantare lentamente, mentre le ombre si allungano sulle pareti del vagone, contribuendo al tono ipnotico del film di Wiles. Laureato in legge, militante per i diritti civili, Clarence Muse si batterà tutta la sua carriera per far ottenere agli afroamericani ruoli non stereotipati, e anche qui ha in effetti un ruolo autonomo, estraneo alle tipiche caratterizzazioni d’epoca.

 

Prison Train (1938) r: Gordon Wiles; sc: Shepard Traube (da un soggetto di Leonardo Bercovici); f; Marcel Le Picard; con: Fred Keating (Frankie Terris), Linda Winters/Dorothy Comingore (Louise Terris), Clarence Muse (cameriere in treno); Prod: Equity Pictures

 

 

 

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