“La carezza della memoria” di Carlo Verdone

di Natalino Bruzzone.

Per rendere lievi le proprie radici bisogna essere già convinti e rassegnati a dover fare i conti con la nostalgia. E saper dolcemente naufragare non tra le onde delle rimembranze ma tra i cirri (magari di porpora e d’oro) dei ricordi. Per Carlo Verdone, virtuoso della malinconia sotto la maschera dell’umorismo e insospettabile cacciatore di nuvole con la macchina fotografica, questa non è affatto una missione impervia. Anzi. Così dopo “La casa sopra i portici” e le sue pagine evocative di uno scampolo di esistenza, si guarda ancora alle spalle non inseguendo il grande futuro che strizza l’occhio dal passato ma la memoria di una formazione alla vita, con i calzoni corti e lunghi, che, come gli esami, non è mai finita.

Il nuovo libro che racconta di questo pellegrinaggio laico, toccante e divertente si intitola “La carezza della memoria” (edito, come il precedente, da Bompiani, 224 p., 17 euro, a cura di Fabio Maiello) ed è un testo che dimostra molto e mai troppo. Intanto testimonia di una capacità narrativa e di uno stile letterario che non cacciano fuori parole soltanto per un’esibizione illusionistica tra la prima e la quarta di copertina.

Leggere per credere il capitolo “Il treno” che contiene un piccolo capolavoro d’osservazione immaginativa: il paragrafo (36 avvincenti righe) dedicato ad una sconosciuta e alla sua malia trasformistica e cangiante che sembra una sfida alla moneta e al paio di guanti che il produttore Robert De Niro in “Gli ultimi fuochi” manipola per creare il senso e il fascino del cinema. E Verdone si lancia con la carezza/carrozza per svelare sentimenti, vizi, virtù e buone cose di pessimo gusto sue ma soprattutto degli italiani dei quali rimane il migliore e il più inesauribile dei pedinatori.

Tra il cuore infranto per una giovane prostituta e una scatarrata in faccia beccata al circo Orfei da un elefante che evidentemente si preparava ad un provino per “Amici miei”, tra colleghi, affetti familiari e antologia di una realtà presa in prestito dal teatro dell’assurdo, Verdone indugia con leggerezza non superficiale nei segreti e nella sincerità del proprio essere uomo e artista, figlio e padre. Già, la nostalgia carogna, ma è una contingenza che viene tenuta a bada dalla sincerità senza sfoghi a ruota libera. Il tono della voce non è mai alto, ma avvolgente come quello di un piffero che ti invita a seguirlo per non essere sopraffatti da ciò che poteva accadere e non è stato. “La carezza della memoria” è come una vecchia credenza con molti cassetti: aprendoli lievitano nell’aria i sorrisi e le lacrime di un’avventura esistenziale, i profumi e gli odori del proprio retaggio, il superbo insegnamento (quasi in guisa della celebre “Se” di Kipling) di papà Mario intorno alla dimensione della magnanimità.

Quello che non si discute è il piacere che il lettore proverà staccando il biglietto per la polvere di stelle che si allarga a Roma e alle sue sorprese con buca, a capotreni da soccorrere perché colpiti da un attacco di ansia dopo che la moglie ha alzato i tacchi dal domicilio coniugale, all’apprendistato torinese, al successo di una irripetibile epopea televisiva e alla chiamata, doppia e diversa, tra lucciconi e caciara, al letto di trepide e sconosciute ammalate.

Così Verdone da pedinatore diventa pedinato dal suo alter ego e con lui si ritrova. Sereno, riconciliato, vivace e rigorosamente malinconico.

 

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Una risposta a “La carezza della memoria” di Carlo Verdone

  1. Luciano Angelini scrive:

    Natalino Bruzzone, ancora una volta da par suo, si conferma attento, sottile, accurato e delicato compagno di chi ama il cinema e i suoi protagonisti. Da profondo conoscitore e narratore di noir ha pedinato il pedinatore con stile agile e accurato quasi solleticando e sollecitando il lettore ad aprire, uno ad uno, i cassetti della vecchia credenza della memoria. Non solo quella del mito Verdone.