Le quattro stagioni – Intervista a Mike Leigh


Mike LeighCronaca della vita quotidiana di una coppia di mezza età, Another Year, il nuovo film di Mike Leigh, respira il ritmo ampio e ineluttabile dei cicli naturali: inizia con una gravidanza in primavera e finisce con una morte in inverno. Quattro ampie unità di tempo e di luogo condensano il trascorrere delle stagioni, splendidamente fotografate da Dick Pope, e registrano gli incontri, gli scontri, i pranzi, le rivelazioni, insomma le infinite chiacchiere di Tom (Jim Broadbent) e Gerri (Ruth Sheen) con i loro parenti squinternati, gli amici alcolizzati e i figli irrisolti. Opera d’impianto teatrale, Another Year è un trionfo del “Leigh’s touch” e gode di tutte le qualità che lo caratterizzano e lo hanno reso celebre: l’acutezza dei dialoghi, il realismo delle situazioni e soprattutto l’eccezionale autenticità degli attori.

In particolare Lesey Manville nel ruolo di Mary, amica cinquantenne scapola e depressa della coppia protagonista, rimarrà uno dei personaggi più memorabili della filmografia del regista di Salford. Alla direzione di un’orchestra tanto perfetta, Mike Leigh compone ed esegue la partitura minimale delle gioie e delle crudeltà che segnano la vita della classe media dei sobborghi londinesi, ritraendola con il tradizionale equilibrio di umorismo dark e di sentimentalismo. Quello che sorprende ancora è l’incredibile precisione del sistema Leigh: tutto è calcolato al millimetro, ma la felicità degli esiti scongiura l’asfissia della progettazione. Anche in un film dalle preoccupazioni e dalle riflessioni altisonanti – si discute di vecchiaia, di solitudine, della paura della morte, di relazioni familiari e intergenerazionali difficili – la compassione e la giusta distanza vincono su tutto.

All’uscita della proiezione stampa ho sentito uno spettatore che si rallegrava con ironia: “Finalmente qualcuno gira dei film anche per noi vecchietti…”. Ma è giusto dire che Another Year è un film sulla vecchiaia?
Il film non ha un tema specifico, credo sia intessuto di questioni esistenziali importanti che riguardano trasversalmente tutte le età. Di che parla? Della vita, evidentemente, ma una definizione di questo tipo rischia di essere sciocca perché pretenziosa. Non posso negare che i temi siano fortemente condizionati dal fatto che ho 67 anni e non 35 ma l’urgenza per me era un’altra: raccontare i tormenti che nascono dalla consapevolezza del tempo che passa e capire in che modo veniamo a conoscenza di questa verità umana e universale insieme. Da qui nascono una serie di problemi e ansie che ci riguardano tutti, a tutte le età.

Però ci sono delle discussioni che affrontano direttamente l’argomento, l’età che avanza costringe i personaggi ad interrogarsi sulle malattia, il dolore e la morte.
Ha ragione, ma ad essere onesto non era soltanto di questo che mi interessava parlare. Avevo già rappresentato la malattia in Belle Speranze (1988), nella forma di una signora attempata che soffriva del morbo d’Alzheimer. O in Topsy-Turvy (1999), con la pazzia del padre di Gilbert e le sua conseguenti allucinazioni. Invecchiando i valori si riducono e tutto ruota intorno alla propria sopravvivenza. Gli individui si concentrano su se stessi, la gente che conosci comincia a sparire a poco a poco. E’ uno stato di cose che condiziona il nostro modo d’essere e di vedere la vita. Questo combattimento quotidiano contro il tempo che passa e ti guasta lo trovo epico, è il centro permanente della storia, è quello che cerco di rapire nei volti e nei gesti dei personaggi. E’ facile identificarsi con Gerri e Tom perché sono affettuosi e pazienti con i loro cari e si appassionano a quello che fanno. E’ questo che gli impedisce di invecchiare male.
Mary è un personaggio sfuggente, umanissimo ma da vera figura tragica, sembra macchiata da una ferita inestinguibile. Cos’ha che non funziona?
Spetta al pubblico farsi la sua idea. Primo approccio possibile: si tratta di una donna che non ha mai avuto un’occasione nella vita, vittima delle sue origini e delle convenzioni sociali. E’ evidente che la gente, soprattutto gli uomini, l’hanno ingannata e hanno contribuito alla sua sfortuna. Ma da un altro punto di vista è possibile che sia lei la sola responsabile dei propri fallimenti. E’ una donna di mezza età che ha sempre vissuto isolata, senza relazioni e rapporti d‘amore ma ha conosciuto la passione. Un personaggio complesso. Quello che mi interessava era di tracciarne un ritratto completo e profondo e di farlo con empatia.

I suoi “pezzi di vita” hanno un’ambientazione sociale e territoriale ricorrente. E’ una specie di fedeltà alla propria estrazione, alla sua classe d’appartenenza?
Mi viene facile. Vengo dal proletariato. Mi sono occasionalmente avventurato nell’alta società ma mi è abbastanza estranea. La classe operaia è il mio universo naturale. Come regista, visto che non realizzo film autobiografici, ho la responsabilità di osservare il mondo, di imparare e di mostrare le persone che lo abitano. Se sono della classe media, il “mio mondo” parlerà di loro. Nel film il fratello di Tom è un vero proletario come lo era Tom. L’accento di Gerri tradisce la sua origine operaia. Ma ormai sono diventati classe media. Per rispondere alla domanda, più che di fedeltà ad un mondo parlerei di fiducia nello “specchio del mondo”, in senso shakespeariano. Il mondo in cui viviamo.

Lei è celebre per la preparazione meticolosa con cui scrive e prova con gli attori prima dell’inizio delle riprese. Di quanto tempo ha avuto bisogno per un film complesso come Another Year?
Moltissimo. Più del solito: abbiamo trascorso mesi e mesi per creare, improvvisare ed elaborare l’universo del film. Poi abbiamo provato le scene negli ambienti e alla fine abbiamo giriamo. Lavoriamo sulla stessa scena un giorno o una settimana a seconda della sua difficoltà. E’ un lungo processo prima di arrivare a qualcosa di preciso, il film di fatto nasce da queste impegnative sessioni di prove.

I suoi film hanno una temperatura drammatica molto particolare, sembrano procedere sereni e poi hanno delle increspature fortemente tragiche o delle aperture ironiche inaspettate…
L’humour è fondamentale per me ma non lo cerco consapevolmente. Mi preoccupo dei problemi dei personaggi e della trama drammaturgica. L’umorismo o il dramma irrompono piuttosto naturalmente perché la vita è comica e tragica, seria e ridicola, triste e gioiosa allo stesso tempo. Questo l’ho imparato, è un fatto.

(Roberto Pisoni)

Postato in Interviste, Numero 91, Registi.

4 Risposte a Le quattro stagioni – Intervista a Mike Leigh

  1. marina scrive:

    ma secondo me Gerri e Tom in realtà non sono affatto pazienti e affettuosi con i loro amici… sono l’espressione di una parte un po’ cattiva della bontà. il colloquio psicologico che fa Gerri all’inizio del film con una donna molto depressa è assolutamente inquientante per la sua anaffettività. per non parlare poi di quando Mary realizza di essersi comportata male e Gerri le aumenta il senso di colpa anziché contenerla. per sentirsi una coppia perfetta questi due sentono il bisogno di circondarsi di persone senza equilibrio.

    • C.A. scrive:

      totalmente d’accordo.
      anzi direi che sentono il bisogno di circondarsi di persone che non rompano il loro equilibrio

  2. mary per sempre scrive:

    bello sapere di non essere l’unica ad aver nutrito in seno un fastidio crescente per la supponente autoreferenzialità della coppia/famiglia , e una sempre più marcata simpatia per l’umanità ferita e straziata dei poveri amici.
    l’unico pensiero chiaro che è apparso come un lampo che rischiara è stato: persone felici e persone infelici non dovrebbero tentare comunicazione o affetto.
    persino il fratello di Tom s’illumina un po’ lontano dai parenti perfettamente felici, rivelandosi quasi bello mentre chiacchiera con Mary

  3. franca morgano scrive:

    sono in sintonia con quanto il regista dice nell’intervista su riportata. Non ho avvertito alcuna supponente autoreferenzialità della coppia, che mi fa invece pensare a due persone che hanno raggiunto nel tempo, forse non senza fatica e non senza una responsabile capacità di fronteggiare prove e rinuncie, una armonia ricca di senso e per niente spocchiosa. La loro capacità di accoglienza dell’altrui inquietudine si manifesta in modo pacato, sensibile e sincero : lo prova, fra l’altro, l’invito al fratello di Tom in un momento di grande difficoltà, invito che non ha minimamente il peso del tempo determinato! La mia sensazione è che voler vedere in questo film, semplicemente bellissimo e profondo e con interpreti di grande spessore, qualcosa di malevolo, di autocompiaciuto e, quindi, di falso è a dir poco pretestuoso e forse, questo sì, un tantino autoreferenziale.