Il nastro bianco

Nel raccontare la storia di un microcosmo rurale, radiografato alla vigilia della prima guerra mondiale, l’austriaco Michael Haneke consegna al grande schermo quello che sinora può essere considerata l’opera più compiuta della sua pluripremiata carriera di regista. Il nastro bianco conserva, infatti tutti i pregi dei suoi più celebri film precedenti (Funny Game e La pianista) – assoluta e maniacale precisione nel comporre le inquadrature, ottima capacità di dirigere gli attori, consapevolezza che è lo stile a determinare il senso del racconto – ma li libera quasi completamente da quel compiacimento estetico, sovente spinto sino al limite del cinismo, che troppo spesso incombeva sui suoi racconti di sesso e di violenza.

O meglio, questo estetismo viene qui sublimato all’interno della classicità di uno sguardo cinematografico sensibile al modelli offerti da Dreyer o da Bergman, diventando parte integrante del racconto, che curva verso un horror sublimato la rappresentazione di una “belle époque” alla tedesca. L’azione si svolge ai confini tra la Germania e la Polonia, ed è evocata dalla voce off di uno dei personaggi (il giovane maestro del villaggio) affidata nell’originale a Ernest Jacobi e dal doppiaggio italiano a Omero Antonutti. A Eichwald, dove tutte le cose materiali dipendono dalla volontà del Barone e quelle spirituali dal Pastore protestante, accadono cose strane e violente: una corda tesa tra due alberi provoca un grave incidente al dottore, la moglie di un contadino muore precipitando da un soppalco, il figlio del Barone viene sequestrato e malmenato, e altrettanto accade a quello della levatrice.

Chi sono i colpevoli? Il maestro sospetta dei bambini del villaggio e la sua voce fuori campo collega molti anni dopo quei fatti alla nascita del nazismo; ma questa è solo la sua opinione. Il nastro bianco può essere visto come una metafora della Storia, ma anche come un’allegoria del potere o una radiografia delle debolezze umane e della società entro la quale queste si esplicano. Meglio però partire sempre da ciò che veramente accade sullo schermo, per constatare che il freddo sguardo di Haneke non dimentica mai gli esseri umani su cui si posa, garantendo così grande autenticità a tutti i personaggi: il barone e sua moglie, il maestro e la ragazza che vorrebbe sposare, il pastore e l’educazione dei figli, il dottore e i suoi sadici rapporti con la levatrice, il sovrintendente e il senso del dovere, ecc.

E’ in questo contesto che anche i bambini (forse colpevoli) sono progressivamente contaminati dalla decadenza morale dei genitori; mentre il film, apparentemente gelido nel suo sguardo da entomologo, costruisce poco a poco (Haneke ama i tempi lunghi e non ostenta mai fretta) un preciso e vitale mosaico di comportamenti umani, una spietata critica di tutte le società fondate sull’ordine gerarchico, un ammirevole esempio di cinema che non si arrende alle lusinghe del quotidiano.

Il nastro bianco
(Das weisse Band – Eine deutsche Kindergeschichte, Austria-Germania-Francia, 2009)
Regia e sceneggiatura: Michael Haneke
Fotografia: Christian Berger
Scenografia: Christoph Kanter
Costumi: Moidele Bickler
Montaggio: Monika Willi
Interpreti: Susan Lothar (la levatrice), Ulrich Tukur (il barone), Burghart Klaussner (il pastore), Josef Bierbichler (il sovrintendente), Marisa Growaldt (la padrona), Christian Friedel (il maestro), Leonie Benesch (Eva), Ursina Lardi (la baronessa Marie-Luise), Staffi Kühnert (Anna), Gabriela Maria Schmeide (Emma), Rainer Bock (il dottore).
Distribuzione: Lucky Red
Durata: due ore e 24 minuti

(di Aldo Viganò)

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