Giornate del cinema muto di Pordenone 2024 – “The Red Dance” (1928) di Walsh

di Renato Venturelli.

Le Giornate di Pordenone tornano a proporre uno dei film meno ricordati di Raoul Walsh: The Red Dance, nemmeno nominato dal regista nella sua autobiografia, rimasto senza voto anche nel celebre “pagellone” tutto-Walsh di Tag Gallagher pubblicato dai “Cahiers” in occasione della retrospettiva 1998 alla Cinémathèque parigina. In Italia uscì come La danzatrice rossa, ma nel titolo originale la “Red Dance” è quella incontenibile e folle dei rivoluzionari, non la momentanea attività di ballerina della protagonista, pronta a spalancare le gonne nel provocante programma del Teatro di Mosca, dove nel 1917 si danza sull’orlo dell’abisso.

Il film compare a Pordenone nella sezione dedicata allo scenografo Ben Carré, e in effetti la sua concezione delle prigioni zariste è un trionfo di grandiosità apocalittica post-Metropolis. I prigionieri vengono spinti verso l’enorme bocca del carcere destinata a inghiottirli, e poi costretti a scendere i tornanti infernali verso le viscere dei lavori forzati, dannati della terra e del sottoterra nella spirale di una Russia zarista ormai prossima alla catastrofe. Del resto, quando William Everson riscattò il film dall’oblio definendolo “silent movie-making at its best“, dopo aver indicato i molti pregi, aggiungeva anche che la vera star del film era comunque l’art director Carré.

Ma questa memorabile discesa dantesca agli inferi, dove la sofferenza dei miserabili permette lo sfarzo dei nobili, è solo uno dei tanti aspetti del continuo movimento impresso al film dal Raoul Walsh del “periodo Fox”, giunto nelle sale quando si era ormai alle soglie del sonoro e quindi distribuito e accolto in modo quasi frettoloso, forse addirittura tagliuzzato. Il dinamismo s’imprime fin dalle prime immagini, nei carrelli irrequieti e nervosi che seguono il Granduca russo al fronte davanti alle truppe, costretto a interrompere una battaglia vincente per gli incongrui ordini di ritirata giunti dal comando. Dopo aver passato in rassegna gli intrighi di corte, compreso il Monaco Nero (Rasputin non viene nominato), il Granduca Evgenij sarà costretto a trasferirsi a Orenburg. Ed è lì che incontrerà Tasia (Dolores Del Rio), figlia di due insegnanti vittime dei Cosacchi dello zar, costretta a vivere in miseria tra contadini che la sfruttano, la bastonano e la cedono in sposa a un ubriacone in cambio di un cavallo.

La vicenda sentimentale tra il nobile e la contadina procederà sullo sfondo delle ingiustizie sociali, delle contrapposizioni tra povertà insostenibile e ricchezza sfrenata, della repressione brutale che innesca la rivolta. La rappresentazione grossolana della Rivoluzione russa potrà poi essere considerata ideologicamente esemplare dello sguardo hollywoodiano sulla Storia, ma permette momenti di irruente forza cinematografica, in un gran dinamismo visivo di immagini tumultuose, rapidi movimenti di macchina, montaggio incalzante. Quando i soldati ammutinati irrompono nella sua camera da letto, la principessa non troverà di meglio che nascondersi sotto le coperte, dove verrà infilzata a colpi di baionetta: una sequenza di violenza sbrigativa per togliere rapidamente di scena l’ingombrante consorte del Granduca. L’assalto al Palazzo verrà introdotto dalla travolgente soggettiva traballante di un carro lanciato contro un portone, seguita dai prigionieri che stavolta risalgono dalle viscere della terra. E le scene rivoluzionarie, come tutte quelle d’azione – e un paio di corse contro il tempo sulle slitte o a cavallo, in mezzo alla neve – sono risolte con grande energia, con tanto di assalto condotto dalle masse di insorti a cavallo, sui carri, a piedi, di corsa, e ripreso con vorticosa varietà di punti di vista e movimenti di macchina. Everson osserverà che c’è grande abbondanza di tecnica, ma nessuna di quelle pretenziosità artistiche lente e autocompiaciute che si trovano in altri film di quell’anno, compreso Tempest di John Barrymore di analoga ambientazione (e con un altro grande scenografo, William Cameron Menzies).

Ma se il rapporto tra il nobile e la contadina permette di impostare schematicamente il quadro sociale della Russia zarista attraverso i suoi estremi melodrammatici, il vitalismo che più appassiona Walsh è poi affidato all’altra coppia speculare, quella formata dalla stessa Tasia e dal gigantesco Ivan, l’Orco che si presenta in scena ubriaco,  cerca subito di violentarla nei campi, tracanna ogni forma di alcool e di cibo, è pronto a sposarla in cambio di un cavallo, che peraltro deve ancora rubare. Ad interpretarlo è il lottatore di origine lituana Ivan Linow, attivo in quel periodo sia sui ring che sui set, utilizzato come emblema di fisicità assoluta e dirompente. Il momento in cui l’essere ignobile, la Bestia violentatrice, becera e prepotente, si risveglia finalmente sobrio per rivelarsi solo un gigante assetato e affamato di vita è uno dei più walshiani del film. Pronto a cavalcare l’impeto rivoluzionario per il suo vitalismo, avrà però da subito un atteggiamento disincantato e allegramente scettico: “il mondo è impazzito, è tutto sottosopra, Tasia ballerina del Teatro di Mosca, io generale!”.

La Rivoluzione viene percepita come un grottesco rovesciamento dei valori, e i nobili continuano a esprimersi solo in cartelli istoriati. E’ però soprattutto un contesto caotico, quasi irreale, dove tutto si mescola e i protagonisti possono gettarsi a capofitto nella vita, o in quel fantasma della vita che è il cinema. Uno  scenario ribollente per le loro traiettorie appassionate. E che riguarda sia Ivan sia Tasia. In una scena, Tasia invita Ivan a non ubriacarsi e a usare invece il cervello; ma quando lui scopre una fotografia del Granduca e le dice “Non sai che è un nemico della causa?”, lei risponde con la battuta più citata del film: “L’amore è l’unica causa di una donna”.  Un dialogo ricordato anche da Michel Henry, quando scrive: “se l’eroismo maschile implica il controllo di sé, l’eroismo femminile passa attraverso il dono di sé”, ed è proprio da lì che fa derivare l’irresistibile energia di cui le donne di Walsh sono capaci, nell’affermazione prorompente del proprio desiderio senza false pudicizie.

 

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