di Renato Venturelli.
Il Cinema Ritrovato 2024 ha reso omaggio a Harry Kümel attraverso i suoi due film più noti, Malpertuis e La vestale di Satana, realizzati entrambi all’inizio degli anni ’70, e per qualche tempo celebrati, poi ridimensionati, ma in fondo rimasti nella memoria cinefila con un alone di culto. Un culto dovuto innanzitutto alla loro eccentricità, alle anomalie con cui si pongono all’interno delle tradizioni del cinema horror e fantastico, all’estenuata eleganza delle singole inquadrature. E forse al loro testimoniare una persistente linea fantastica del cinema belga, con profonde radici anche all’interno della sua tradizione pittorica.
E’ del resto in quest’ultima ottica che viene letto innanzitutto Malpertuis, ispirato al libro più famoso di Jean Ray (1887-1964), lo scrittore di Gand amatissimo tra gli altri anche da Alain Resnais, ma che ha sempre faticato ad essere accolto dal pubblico italiano. Il clima è immediatamente favolistico, con un giovane marinaio biondo e vagamente efebico (Mathieu Carrière) che sbarca in un porto fiammingo, scopre che la casa della sua infanzia è crollata e finisce in un locale dei bassifondi dove canta
Sylvie Vartan (sì, la moglie di Johnny Hallyday, quella di “Zum Zum Zum” e “Comme un garçon”). Coinvolto in una rissa, si risveglierà nel luogo in cui non avrebbe mai voluto finire: Malpertuis, la grande e decrepita villa degli orrori di proprietà dello zio, un perverso mago occultista interpretato da Orson Welles.
Che il film punti innanzitutto sul colore lo si vede fin da queste prime scene, tra gli azzurri delle banchine che rimandano alle illustrazioni dei romanzi d’avventura, gli interni coloratissimi e volgari del locale per marinai, e poi l’arrivo a Malpertuis, dove Orson Welles giace in un grande letto circondato dai rossi di coperte e baldacchini. In questo viaggio onirico nelle proprie angosce, il protagonista dovrà aggirarsi per quasi tutto il film in quella villa maledetta, tra corridoi bui e labirintici, scale a chiocciola, abbaini e sottotetti, stanze ricolme di animali impagliati, vasi con i resti di esperimenti umani, personaggi enigmatici e misteriosi.
Ad accentuare il tono fantastico della vicenda vi sono poi le figure di contorno, tutte caricate e grottesche, a cominciare dal viscido trafficone Michel Bouquet che organizza il rapimento del protagonista. E le allusioni citazioniste cominciano dal negozietto cui Mathieu Carrière si rivolge tra le case medievali lungo il canale, una bottega che reca sui vetri l’insegna “H.Dickson & H.Dickson”, cioè Harry Dickson, il personaggio più celebre creato da Jean Ray. Alla fastosità scenografica e alla tortuosità narrativa corrisponde poi una lambiccata complessità di rimandi, con tanto di dei dell’antica Grecia agonizzanti dal momento in cui gli uomini non hanno più creduto in loro, di cornice ospedaliera “caligariana” e di citazione finale per cui tutta la vita non è forse nient’altro che un sogno. Del resto, il racconto comincia e finisce all’insegna di Lewis Carroll.
Del film è circolata a lungo una versione di 100 minuti, mai riconosciuta dal regista, mentre a Bologna s’è potuto vedere il recente restauro di 125 minuti, probabilmente anche un po’ prolisso con i suoi eccessi costantemente sopra le righe, ma che è quello voluto da Kümel.
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Malpertuis – presentato a Cannes nel 1972 – è stato a lungo un film maltrattato e rimosso, difficile da reperire, ma anche il più celebrato e citato La vestale di Satana (Les Lèvres Rouges, 1971) ha avuto i suoi periodi difficili: in Italia, ad esempio, è circolato a lungo in una versione dai colori atrocemente rosé. Entrambi i film puntano sull’ambientazione belga, Gand e Bruges per Malpertuis, Ostenda e il suo lungomare fuori stagione per La vestale di Satana: una città cupa e piovosa, dove i pochi personaggi si ritrovano nei lussuosi interni liberty di un vecchio albergo deserto. Ed entrambi sono stati scritti da Kümel con la collaborazione di un personaggio eccentrico come Jean Ferry (1906-74), lo scrittore patafisico, membro dell’Oulipo, specialista di Raymond Roussell, sceneggiatore tra l’altro di Quai des Orfèvres e Manon di Clouzot, di La faute de l’abbé Mouret (di Franju), a suo tempo anche collaboratore di Les enfants du paradis.
Tutto questo senza dimenticare che Kümel si diceva soprattutto ispirato da Sternberg, cui era molto legato e al quale aveva anche dedicato un omaggio tv. Inoltre, molti hanno visto negli interni soffocanti un riferimento a L’anno scorso a Marienbad di Alain Resnais: quel Resnais che tanto amava Jean Ray, e che spinse la sua compagna d’epoca Delphine Seyrig ad accettare il ruolo della protagonista di La vestale di Satana. Nel presentare il film a Bologna, Juliette Armantier ha anche ricordato che in fondo “siamo più vicini a Marguerite Duras che ai film della Hammer: qui la vampira è una figura borghese e decadente che si muove in un ambiente grigio e malinconico”.
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La raffinata contessa interpretata da Delphine Seyrig in La vestale di Satana è la leggendaria Elizabeth Bathory, la Vampira che si diceva mantenesse la giovinezza grazie al sangue di giovani vergini, in linea con la tendenza dei primi anni ’70, in cui al cinema andava di moda l’horror al femminile, anche per sfruttare l’apertura delle maglie della censura in tema di rappresentazioni erotiche.
Nonostante i suoi tocchi di sofisticata ironia, il film di Kümel ha però poco a che fare con le versioni Hammer gioiosamente sexy-pop del tipo Barbara il mostro di Londra, Vampiri amanti o i vari derivati da Carmilla. Qui c’è una coppia di sposi che si ferma a pernottare in un Grand Hotel di Ostenda, dove arriva anche una bella signora (Seyrig) in compagnia della cameriera-amante. La sposina attirerà presto le attenzioni della nuova arrivata, in una variante lesbo-femminista della mitologia vampiresca: il fascino di Delphine Seyrig va ben al di là di un trucco vagamente à la Marlène, e riuscirà a strappare la giovane dalla schiavitù del matrimonio eterosessuale. “Certo che ti ama – dice la Vampira del marito – e vuol fare di te quello che da sempre gli uomini sognano di fare di tutte le donne: una schiava, una cosa, un oggetto di piacere”, alimentando quindi la lettura del film in chiave femminista. Del resto, nel momento culminante della vicenda, le due donne uccidono l’uomo e vengono inquadrate dall’alto mentre si dedicano a succhiarne minuziosamente il sangue.
A complicare le cose c’è peraltro anche lo stesso personaggio del marito, che si eccita davanti al cadavere di una ragazza dissanguata, prende improvvisamente la moglie a cinghiate, procrastina la presentazione della sposa alla madre: finché nel corso di una telefonata si scopre che la “madre” è in realtà un uomo, interpretato dall’attore e regista Fons Rademakers, che annusa orchidee, è vistosamente truccato e si dice ansioso di fare la conoscenza del “nuovo fiore” in arrivo. Già nel suo film precedente, Monsieur Hawarden, Harry Kumel aveva del resto raccontato la storia di una donna che veste abiti maschili: le questioni d’identità sessuale sono abitualmente al centro dei suoi film.
Ma le attenzioni maggiori di Kumel riguardano anche qui la fastosa messinscena, con gli interni lussuosi dell’hotel in cui si svolge quasi tutta la vicenda (un mix dell’Astoria di Bruxelles e del Thermae Palace di Ostenda), il fitto citazionismo pittorico fin de siècle, l’insistito uso simbolico dei colori. A dominare è in particolare il rosso, sia negli abiti di Delphine Seyrig, sia nell’accappatoio che il marito (John Karlen) indossa nei momenti cruciali, sia nel fatto che l’intero racconto è scandito da dissolvenze in rosso. La giovane sposa Valerie appare inizialmente tutta in beige, con tanto di allusione hitchockiana quando viene ripresa di spalle e il suo chignon a spirale rimanda apertamente a quello di Vertigo (d’altra parte è anche lei una versione di donna che visse due volte), mentre nelle scene in cui viene sedotta dalla Contessa le due donne appaiono entrambe in abito bianco.
Spesso disprezzati, ma anche oggetto di culto per la loro eccentricità, i due film fantastici di Kumel hanno del resto un persistente potere suggestivo grazie al loro estenuato estetismo, e tornano ora a interessare la critica per la maniera in cui affrontano le tematiche sessuali. Fin dagli anni ’80, del resto, Danny Peary inseriva La vestale di Satana nella sua personale antologia di cult movies. Ma Harry Kümel potrebbe forse meritare qualche recupero ulteriore, da Monsieur Hawarden (1968) a De Komst van Joachim Stiller (1976), con le sue bizzarre incursioni del fantastico nella quotidianità contemporanea, e con i suoi esibiti kafkismi che rimandano al giovanile e televisivo The Gravedigger (1965).