di Renato Venturelli.
Le giornate di Pordedone rendono omaggio a Anna May Wong, leggendaria attrice sinoamericana, attiva soprattutto nel periodo tra le due guerre, esaltata e intrappolata in vita dal lavoro sulle convenzioni del cinema hollywoodiano, altrettanto esaltata e intrappolata poi dalle letture interessate quasi unicamente a stereotipi culturali e orientalismi.
Lanciata negli anni ’20 da una serie di film in cui spicca ovviamente Il ladro di Bagdad, Anna May Wong tentò alla fine degli anni Venti la strada dell’Europa, come peraltro in quello stesso periodo fece con successo anche Louise Brooks. E a Pordenone si sono visti sia un paio di titoli americani (Dinty, 1920; Driven From Home, 1927), sia due coproduzioni anglotedesche d bella affermazione divistica, interpretate in Europa per la regia di Richard Eichberg. In Song (1928) viene salvata da un lanciatore di coltelli, avvia con lui una relazione dalle sfumature sadomaso, resta sola e diventa una stella della danza. In Fior d’ombra / Pavement Butterfly (1929) è invece vittima di un equivoco della serie “labbra serrate”, ma nel finale congeda il suo ex lasciandolo al fianco della nuova compagna d’alto bordo e pronunciando una discussa battuta, prima di allontanarsi sola nel buio: Yiman Wang ricorda che nella versione tedesca dice “Non appartengo a voi”, mentre nella versione inglese dice “Non appartengo al vosto mondo. Voglio tornare al marciapiede”.
Tornata negli Stati Uniti, svilupperà poi la sua carriera tra alti e bassi, successi e delusioni cocenti (il mancato ingaggio per La buona terra), continuando però a frequentare il suo pubblico europeo. Tra il 1934 e il 1935 raggiunse in tournée anche svariate città italiane, e un lunghissimo articolo sul “Secolo XIX” di Genova testimonia in modo analitico sia il suo spettacolo sia la sua immagine.
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Anna May Wong arrivò a Genova il 9 gennaio 1935, preceduta da un caloroso battage pubblicitario che la presentava come un autentico evento, tenne il suo spettacolo la sera stessa all’Olimpia di via XX settembre (ore 21.30) , quindi due repliche il giorno successivo (ore 17 e 21.30), per poi ripartire. Dalle cronache, si deduce che cantò tra le altre canzoni “Parlez-moi d’amour” e “Parlami d’amore Mariù”.
Guglielmina Setti scrisse qualche riga sul “Lavoro”, inserendo le sue abituali frecciate: “Ha cambiato molti costumi fastosi, ha cantato in molte lingue – anche in italiano, la nostra tremenda Mariù nazionale – ha disegnato con grazia gli arabeschi di una danza orientale, che sullo stretto palcoscenico dell’Olimpia sembrò più che altro un bassorilievo vivente. Poco o molto, a seconda di quanto ci si aspettava da lei. Noi che soprattutto eravamo curiosi di vedere se in realtà Anna May Wong sia bella come nei suoi films, abbiamo voluto avvicinarla in una veste verde a disegni persiani – veste che avremmo giurato di marca parigina – il suo corpo è perfetto, più lungo e più affusolato di quanto sembri sullo schermo; il suo viso rotondo ha i piani levigati e sorprendenti degli idoli orientali; le sue mani sono, come sullo schermo, leggere e nervose – veri miracoli. Ne abbiamo guardato con un certo rancore le unghie scarlatte – non viene dalla Cina l’orripilante moda delle unghie laccate? – ma i grandi occhi misteriosi ci hanno ricordato che East is East e West is West: se le Occidentali vogliono scimmiottare le Orientali peggio per loro”. La rivista locale “Il teatro illustrato” la definisce “una delle prime trionfatrici dell’avvento del sonoro e parlato“, ma anch’essa mescola gli elogi a qualche frecciata: “Canta, o meglio, dice delle canzoni dai nostri principali palcoscenici. Fascia il bellissimo corpo in serici kimoni, danza, si fa ammirare ed applaudire. Sorride, e sembra felice. Felice dovrebbe essere davvero, finalmente vicina ad un pubblico che l’adorava dai tempi del Ladro di Bagdad e che essa non aveva mai veduto. Un pubblico che l’applaude anche se canta “senza voce”, che non dimentica il suo decisivo successo di Shanghai Express”. Poi lamenta il fatto che il suo spettacolo sia stato accompagnato dalla proiezione del film Dopo quella notte (con Constance Bennett), mentre avrebbe preferito la riproposta di Shanghai Express: perché “il pubblico era accorso per lei, e con gli applausi le ha confessato tutta la sua contentezza”.
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Il lungo articolo del “Secolo XIX”, siglato R.C., offre invece una cronaca più dettagliata sia del modo di proporsi dell’attrice sia dello sguardo degli spettatori, a partire dal “colore” del suo arrivo alla stazione Principe. “Una stella in pieno giorno nel cielo di Genova”, titola. E l’articolo:
“Anna May Wong, star del Celeste Impero, sufficientemente europeizzata per poter essere detta anche star europea, è arrivata a Genova ieri pomeriggio. Alla stazione Principe si è visto arrivare un treno proveniente da Milano, e subito dopo scendere da un vagone di prima classe dodici valigie, una ragazza, un giovanotto e una pelliccia di visone. Le dodici valigie erano di bagaglio, così detto a mano, di Anna May Wong, la ragazzina era Mary Grace Melnitz, cameriera-segretaria dell’attrice, il giovanotto era Gordon Vakman Whellat, maestro di musica, che segue Anna May Wong in tutte le sue peregrinazioni. Anna May Wong, poi, era dentro la pelliccia di visone. La gente non se ne è accorta molto di tale eccezionale arrivo, e neanche se ne erano accorti, lì per lì, gli altri che erano andati in stazione proprio per attenderla. Gli è che aspettavano di vederla scendere da un vagone letto, agganciato in coda al treno, mentre la star, le valigie e tutte le altre robe sono discesi invece da un vagone di prima classe posto in testa al convoglio. Di qui una rapida e veloce corsa sotto la pensilina, urtando viaggiatori, picchiando stincate nelle valigie poste a casaccio sul marciapiedi, evitando per miracolo di ricevere in pieno viso uno sportello di vagone improvvisamente apertosi. Finalmente dopo la breve corsetta tutti gli interessati sono attorno all’attrice che aspettavano, ritta in mezzo a una specie di trinceramento fatto con le dodici valigie, ai lati del quale vigilavano la ragazzina Mary e il maestro Gordon”.
Finita la presentazione in pieno stile colorista, prosegue con l’incontro in un vicino albergo, presumibilmente il Colombia: si passa alla descrizione mondana, inzeppata di tocchi orientalisti.
“Qualche minuto più tardi l’abbiamo ritrovata nei saloni di un grand hotel delle vicinanze, dove la notizia del suo arrivo si era sparsa immediatamente nei meandri dei corridoi, sicché da ogni parte spuntavano teste di cameriere curiose, di clienti, di ragazzi in uniforme gallonata. Anna May Wong registrava così il suo primo successo genovese. (…) Per quel che ce ne ha fatto vedere la pelliccia di visone, dobbiamo limitare il nostro esame alle caviglie, ai piedini e al viso color zafferano. Le caviglie sono da donna di classe, agili, nervose, scarnite come manici di violino. Il viso è largo, quasi piatto, e in esso si perdono le aperture a mandorla degli occhi, così strette, così oblunghe che proprio sembra che la donna guardi attraverso due feritoie. Ma le pupille nere, nerissime come i capelli corvini, han su quel viso il risalto di un’onice sul raso giallo di un astuccio da gioielliere. La bocca, tagliata via con una rasoiata netta e lunga, si schiude nella parlata sui denti bianchi e piccolissimi, come chicchi di riso. Le sopracciglia sono appena disegnate, in alto su gli occhi; opera di rasoio che sembra fatta invece dal frettoloso pennello di un frettoloso pittore. Le mani non le abbiamo viste, ché erano inguainate nei guanti, ma stringendone una l’abbiamo sentita lunga, fine, minuta, e le dita ci sono parse un mazzetto di quei bastoncini d’avorio che servono ai giapponesi per mangiare il riso.
Quando parla, Anna May Wong dà il via a una serie di vocalizzi stranissimi: in certi momenti, ha la voce di Greta Garbo, quando chiede una sigaretta a quel disgraziato del suo amante (ve la ricordate, in Mata Hari?); in altri invece la voce è dolce, tenue e calda come una carezza. Parla non so quante lingue, Anna May Wong: “a little” – un poco – di tutte; ma intanto, a domandarle qualcosa in francese, risponde in tedesco, e se per caso vi azzardate a dirle che siete ferrato anche nella lingua di Schopenhauer, vi risponde in italiano, che per lei è lo stesso: parlare inglese, italiano, francese, tedesco, non fa differenza. (Già, è vero, ma intanto si perdono cinque minuti buoni per metterci d’accordo sulla lingua da usare).
L’attrice attraversa la hall dell’albergo con la sua andatura souple e lenta, da felino. La seguono gli sguardi incantati di camerieri e cameriere. Il suo nome è sussurrato appena, mentre gli sguardi di tutti ammiccano alla pelliccia di visone che sembra camminar da sola, con sopra il coperchio marrone del cappellino. Ora, seduta su un divano, Anna May Wong ha la grazia di un soprammobile.
Racconta un po’ della sua vita, premettendo che tutto quanto racconterà non è assolutamente parto della sua fantasia, sebbene qualcosa potrà sembrarci una favola cinematografica. (noi, per nostro conto, non ci illudiamo di ascoltare niente di inedito: anzi, pensiamo con raccapriccio ai colleghi di tutto il mondo che finora si sono trovati nelle nostre condizioni, e a quelli che ancora non hanno fatto questo ‘servizio’ ma lo dovranno fare).
Dunque, Anna May Wong tira fuori che è nata nel quartiere cinese di Los Angeles [sic], in California. (Questo ci toglie una prima illusione, ché ci eravamo immaginati che la ragazzina venisse dritta dritta dalle rive del Fiume Giallo. A ogni modo, siccome il quartiere cinese di Los Angeles lo abbiamo visto tante volte nei film, fa lo stesso). Non si può dire che fosse una scolaretta modello; invano i suoi genitori si sforzavano di mandarla alla scuola: Anna aveva sempre per la testa il cinematografo. E se anche non l’avesse avuto in mente, certo glielo avrebbero messo nel sangue i cinematografisti che ogni tanto andavano per le coloratissime strade della “Cinatown” a cogliervi saporitissime scene di ambiente giallo. Morale: disperazione dei genitori e guadagno dei primi dollari come comparsa.
Da questo momento la carriera è facile: La lanterna rossa, il Dinty, Butterfly e finalmente l’incontro con Douglas Fairbanks e la decisione di questi di prendersi Anna May Wong come “schiava mongola” del Ladro di Bagdad.
Quando parla del Ladro di Bagdad – il film che la laureò – Anna May Wong chiude le feritoie dei suoi occhi, forse per richiamare più intensamente alla sua mente i ricordi di quel film capolavoro. (Anche noi, del resto, cerchiamo di ricordarla, con quel suo corpicino così plastico, con quella sua silenziosa azione nel film spettacoloso. E purtroppo non troviamo niente di allora nella signora che ci è di fronte oggi. Ma sarà effetto della pelliccia di visone…).
Poi continua nel racconto felice, istoriato di errori perdonabili, perdonabilissimi. Passa, nel suo racconto, una cometa tutta fatta di lucentissimi nomi di artisti dello schermo: Douglas Fairbanks, Mary Pickford, Marlene Dietrich, Greta Garbo, Lupe Velez, Marion Davis, ecc.ecc. Una girandola. Ricordi di Shanghai Express, di Hai Tang, di Farfalla della metropoli. Domanda: “Vi è piaciuto? Che ne dite? Quale è la mia migliore interpretazione?”. Risposte a casaccio, perché troppo improvviso il passaggio da inquisitore a inquisito. Una partita di dare ed avere tutta fatta di domande e di risposte alle quali, per tacita intesa, nessuno di noi annette importanza”.
Infine, la descrizione dello spettacolo.
“Più tardi, a teatro, davanti a un pubblico elegantissimo, Anna May Wong ha cantato e ha ballato. Una strana canzone della sua patria, tutta monosillabi e toni acuti; una canzone francese tutta invocazione all’amore; una canzone italiana conosciutissima. Nel canto ha gesti pacati, misurati, né si smascella in vocalismi. Sembra che voglia ottenere il massimo effetto col minimo sforzo. Tre canzoni, e un ballo che sta tra il pagano e il sacro, e che altro non è se non un magnifico gioco di ombre nere sul cerchio bianco disegnato dal riflettore sul fondale di velluto. Solo le mani vi hanno un gran gioco; le mani che hanno le unghie tanto rosse che anche le dita bianchissime ne avvampano e sembrano così tanti pezzetti di ceralacca rossa ballonzolanti a mezz’aria.
Sul viso largo che ha perso, per via della cipria, il suo colore zafferano e che ora è tutto bianco, le feritoie degli occhi si schiudono appena, sotto l’impeto di riflettori abbaglianti. Non sono così che due tratti neri, profondi, marcatissimi, da clown.
Vista dalla platea, così reale, così vicino a tutti, Anna May Wong ha perso un poco del suo fascino, e non è stata più la donna che muore de Il ladro di Bagdad né la donna che uccide di Shanghai Express. Certo non volendolo, l’attrice ha sollevato intorno a sé quel velario fatto di esotismo, di irreale, di sconosciuto che l’aveva avvolta fino ad ora, ed è diventata così un’attrice qualsiasi, un’attrice molto brava, ma anche un po’ comune alla sua arte”.