Giornate del cinema muto di Pordenone 2024 – “Forgotten Faces” (1928)

di Renato Venturelli.

Quando “Forgotten Faces” uscì in sala nell’agosto 1928, il recensore del “New York Times” lo contrappose subito a “The Racket“, indispettito davanti al ritratto del criminale raffinato e gentiluomo, amante dei figli e della famiglia, offerto dal film (della serie: i criminali veri normalmente non sono affatto queste combinazioni di virtù che si vedono sugli schermi).

E’ una questione che però va al di là del semplice aspetto morale, o del fastidio per una moda datata. In effetti, “Forgotten Faces” non uscì solo nel momento in cui il cinema stava passando dal muto al parlato, condannandosi così a ricevere un’attenzione marginale rispetto alle sue qualità. Uscì anche nel bel mezzo della trasformazione del racconto poliziesco e criminale americano, quando Hammett era già popolare sulle pagine di “Black Mask” col suo Continental Op e stava per pubblicare “Piombo e sangue“, mentre nel 1929 sarebbe uscito anche “Piccolo Cesare” di  William R. Burnett, rivoluzionando l’iconografia gangsteristica. La rappresentazione del crimine stava diventando molto più vicina alla realtà, anche nel linguaggio, abbandonando progressivamente gli schemi melò più stantii. E la coincidenza della doppia svolta non è del tutto casuale, in quanto al cinema fu proprio il contemporaneo arrivo del parlato ad accelerare quelle trasformazioni anche linguistiche introdotte in letteratura da Burnett, Hammett e dagli altri esponenti della cosiddetta scuola “hard-boiled”.

Forgotten Faces, da questo punto di vista, apparteneva al passato. D’altra parte era tratto da un racconto di Richard Washburn Child del 1919, già portato al cinema col titolo Heliotrope nel 1920. Ma costituiva al tempo stesso un testo così riuscito e affidabile da avere successivamente un altro remake nel 1936 (con Herbert Marshall) e addirittura – ormai in ambito produttivo minore – nel 1942 col titolo A Gentleman After Dark (in Italia Io la difendo), con Brian Donlevy e Miriam Hopkins.

Nonostante i patetismi melò, l’amore incondizionato per la famiglia e la raffinatezza dei modi, il ritratto del criminale gentiluomo nel film del 1928 è però tutt’altro che edificante, ma corre lungo il filo di una perfidia, di un’ironia e in parte anche di un cinismo non distante dalla più celebrata produzione dell’epoca pre-Code. E l’inizio, di sintetica efficacia visiva, gioca proprio sulla sorpresa. L’elegantissimo Clive Brook si dimostra generoso con una fioraia ambulante, proclama il suo amore per la famiglia, dice al suo aiutante (William Powell, ancora – per poco – in versione greve da bassifondi) che il lavoro di quella serata sarà da un quarto d’ora esatto, perché non vuol fare aspettare moglie e figlia. Quindi il piatto di una roulette inquadrato dal basso, con i volti dei giocatori che si sporgono all’interno del cerchio: siamo in una bisca d’alto bordo, dove Brook e Powell irrompono per una rapina e Powell riserva anche un siparietto erotico con una signora che ha nascosto i gioielli nelle calze, facendole sollevare la gonna. Una ricca anziana protesta, ma una bisca non è il luogo più adatto. In Forgotten Faces, il rapporto tra principi morali, illegalità e realtà è sempre ironicamente problematico. E la sequenza della rapina è un piccolo gioiello di economia narrativa attraverso le immagini: è il modo stesso in cui è girata a trasmettere il senso di elegante e ironico distacco.

Rientrato a casa dopo il colpo, Brook scoprirà che la moglie ha un amante e ha pure cercato di incastrarlo avvisando la polizia: e lui reagirà uccidendo il rivale (un semplice primo piano di Clive Brook davanti alla camera da letto e il filo di fumo della pistola) e lasciando poi la figlia di pochi mesi davanti al portone di una coppia agiata. Troverà modo di esibire il suo distaccato umorismo anche nella scena in cui si fa arrestare: chiacchierando con un semplice agente, informandosi sulla sua famiglia, e consegnandosi poi a lui per fargli avere un aumento. La famiglia è tutto.

C’è anche qualche inquadratura a base di controluce, ombre e scale buie, alla maniera cosiddetta “espressionista”, ma poi il film imbocca narrativamente altre svolte. Diventa un melò familiare sul tema della paternità soffocata, alla Stella Dallas maschile, con Brook che esce dal carcere e si fa assumere come maggiordomo nella famiglia dove vive la figlia, ovviamente senza rivelarsi. Ma recupera anche il personaggio della moglie adultera, una strepitosa Olga Baclanova di debordante carnalità e volgarità, una vera furia dal cinismo travolgente sia quando tradisce il marito, sia quando cerca loscamente di avvicinare la nuova famiglia della figlia. Un film che gioca sul creare l’angoscia, quando Brook comincia a perseguitare la moglie disseminando ovunque fiori di eliotropio, che costituiscono il suo segno di riconoscimento. E s’inventa un finale ad effetto girato sontuosamente, diventando un thriller a base di trappole, inganni e manipolazioni, arrivando perfino alla vertigine – che magari oggi troviamo quasi hitchcockiana – di una caduta mortale nel vuoto: tutto preordinato, compreso il piolo rotto di una scala sospesa sul precipizio.

La regia è di Victor Schertzinger, la fotografia è di quel J.Roy Hunt che arriverà a filmare alcuni noir Rko degli anni ’40. Ma ovviamente colpisce di più un nome ben in evidenza nei titoli di testa: quello di David O.Selznick, al suo primo film da produttore alla Paramount. E non andrebbe tralasciato nemmeno l’autore dell’adattamento: Oliver H.P. Garrett, sceneggiatore di svariati pre-noir anni ’30, molto apprezzato da Selznick che lo coinvolse poi anche in Via col vento.

Nel presentarlo a Pordenone, David Pierce osserva come nel finale del film “si rispecchia in lui la follia di lei”, ricordandoci come l’articolazione dei personaggi e i loro rapporti siano meno banali di quanto possa apparire. Più in generale, però, trionfa il racconto come marchingegno perfetto, il cinema come controllo della macchina delle emozioni, in piena maturità di linguaggio. Un controllo che passa continuamente da un genere all’altro, dal gangsteristico al crimine passionale, dal melò della genitorialità repressa all’orchestrazione del terrore, al thriller vertiginoso: un esemplare prontuario del cinema di genere come perenne mescolanza di generi. Andrew Sarris non l’aveva dimenticato, e nel ’68 lo inserì nella lista dei migliori film del 1928, all’interno del suo “The American Cinema”.

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