Karlovy Vary KVIFF 2023 – Intervista a Cyril Aris

di Massimo Lechi.

Cinque anni dopo il passaggio in concorso della sua toccante opera d’esordio, The Swing (2018), il regista e montatore libanese Cyril Aris è tornato a Karlovy Vary con Dancing on the Edge of a Volcano, calorosamente accolto da critica e pubblico. Un altro documentario, forse meno delicato e schiettamente autobiografico del precedente, che tuttavia riesce con precisione e lucidità a fotografare e analizzare il malessere sociale, politico ed esistenziale che attanaglia il Libano contemporaneo. Con Maroun Bagdadi come stella polare, Aris parte infatti dalle impressionanti macerie lasciate dalla grande esplosione nel porto di Beirut del 4 agosto 2020 per poi concentrare il suo obiettivo sulla tormentatissima – tra emergenza Covid, crisi finanziarie e difficoltà logistiche di ogni tipo – lavorazione di Costa Brava, Lebanon (2021), primo lungometraggio di finzione di Mounia Akl, prodotto dalla Abbout Productions di Myriam Sassine e Georges Schoucair, con Nadine Labaki e Saleh Bakri protagonisti.

Menzione speciale della giuria al cinquantasettesimo Karlovy Vary International Film Festival (30 giugno – 8 luglio 2023), Dancing on the Edge of a Volcano vale sia come conferma di un talento registico cristallino sia come ritratto di una generazione di cineasti resistenti e di un paese squassato da una sequela implacabile di catastrofi.

Come sei finito a dirigere Dancing on the Edge of a Volcano?

Mi piace la tua scelta di parole. Come sono “finito” a fare questo film?… In realtà originariamente non era mia intenzione realizzare un documentario su Mounia, Myriam e il loro progetto. Il punto di svolta è stato l’esplosione nel porto di Beirut del 4 agosto 2020. Ricordo che camminavo per le strade, ora distrutte, in cui ero cresciuto e che conoscevo come il palmo della mia mano: un’esperienza scioccante, inimmaginabile. Vedevo persone accorrere da ogni parte di Beirut per partecipare alla ricostruzione e mi chiedevo quale fosse il mio posto in quell’equazione, non solo in quanto libanese ma anche in quanto filmmaker. Mounia e il team di Costa Brava, Lebanon condividevano il mio stesso dilemma. Istintivamente ho così iniziato a sentire il bisogno di documentare quei momenti.

Quindi hai deciso di concentrarti prima sulla comunità cinematografica libanese e poi sulla troupe di Costa Brava, Lebanon?

Non solo sulla comunità cinematografica. All’inizio ho filmato anche altri artisti e attivisti, ma con loro non avevo un rapporto paragonabile a quello che ho con Mounia, con la quale ci conosciamo da decenni: un rapporto, il nostro, che mi permetteva di avere accesso ai suoi spazi privati e poter così registrare da vicino i suoi stati d’animo. Questa vicinanza era la cosa più importante se volevo provare a restituire le sensazioni e le emozioni, il senso di trovarsi in quel posto e in quel momento, all’indomani della grande esplosione. È così che li ho scelti e che è nato il mio film.

E il making of è diventato poi qualcos’altro.

Esatto. In loro ho trovato il dramma. C’è infatti un quesito, a livello drammaturgico: riusciranno a girare il film o no? Da lì le varie peripezie e battute d’arresto, che costituiscono esse stesse quasi un racconto di finzione. Avevo bisogno di una linea narrativa per tenere desta l’attenzione del pubblico e per poter poi esplorare i temi che davvero mi interessavano come il ruolo dell’arte, il processo creativo tra le rovine, il nostro essere divisi tra la voglia di resistere e il desiderio di mollare tutto, e naturalmente Beirut e la sua rappresentazione. Ogni volta che nel film racconto di un nuovo ostacolo che la troupe è costretta a superare, apro una piccola parentesi che ci permette di riflettere su un aspetto della città.

Il rapporto contrastato con Beirut, e più in generale con il paese, è un tratto distintivo del cinema libanese. Lo si vede anche nei vostri film più recenti, in cui ci sono sempre dei personaggi che si dibattono tra rassegnazione e voglia di fuga.

Sì, è un’ambivalenza propria dell’identità libanese. Sembra quasi che il nostro cinema faccia sempre lo stesso film, all’infinito. Cambiano i contesti e i personaggi, ma il tema è sempre lo stesso attraverso i decenni. È una constatazione piuttosto triste, questa.

Dall’esterno la sensazione è che siate finiti in un cul-de-sac, prigionieri di situazioni che si ripetono ossessivamente. Immagino che sia stato questo a spingerti a guardare indietro a Maroun Bagdadi e a utilizzare spezzoni del suo Whispers, del 1980.

Curiosamente ho scoperto Whispers di Bagdadi proprio il primo giorno di lavorazione del mio film. Guardandolo ho pensato che se l’avessi proiettato a degli spettatori, avrebbero pensato che fosse un film girato in quel preciso momento. Certo, la grana delle immagini è diversa, ma da un punto di vista tematico parla del nostro presente.

È corretto dire che il cinema libanese è un cinema di macerie?

Lo definirei un cinema di macerie che cerca costantemente di risorgere. Non passiamo il tempo a osservare la nostra città che viene distrutta e ricostruita: creiamo. C’è un bisogno di produrre da parte degli artisti libanesi, e non mi riferisco solo a quelli che lavorano nell’industria cinematografica, che penso sia inversamente proporzionale al livello di cupezza, di depressione e di devastazione della società in cui viviamo. Sono questi i due elementi che definiscono il cinema libanese: le macerie, come contesto, e il desiderio delle persone di reagire e creare.

Non pensi però, guardando al quadro del cinema arabo in tutta la sua ampiezza, che il “malessere libanese” si sia diffuso in maniera significativa negli ultimi anni? In Maghreb, in particolare.

Sì, nel cinema marocchino e in quello tunisino è molto forte la tendenza a rappresentare il disagio sociale. Del resto, come arabi, abbiamo in comune la corruzione, la cattiva amministrazione e le pessime leadership politiche… Ci sono politici corrotti in tutta la regione, ma i nostri in Libano sono di razza purissima, incontaminata, completamente privi di geni dell’onestà.

Pur nelle differenze, che sono forti da paese a paese, c’è un filo che vi lega: l’idea del cinema come atto di resistenza, e come impresa in qualche modo illusoria.

Assolutamente.

In questo senso il tuo documentario è esemplare.

Ci illudiamo creando un nostro piccolo mondo sul quale esercitare il controllo, mentre invece fuori, nel mondo reale, non possiamo controllare nulla, come ha dimostrato il 4 agosto, quando la corruzione che si è impossessata del paese è letteralmente penetrata nella nostra intimità. Viviamo in un tale stato di incertezza che talvolta, come i personaggi del film di Mounia, ci convinciamo a ritirarci in montagna due mesi per baloccarci con quest’artificio chiamato cinema… Ciò detto, è un’illusione che ha un grande valore, e che può garantire salvezza e catarsi. Il fatto di poter vivere in una realtà parallela, seppure per brevi periodi, ci aiuta a mantenere intatta la nostra sanità mentale.

A proposito di artifici cinematografici, mi interessa molto il rapporto che hai instaurato con i protagonisti del tuo documentario, i quali si sono mostrati in tutta la loro vulnerabilità davanti alla tua macchina da presa durante la lavorazione di un film per loro di vitale importanza, che assorbiva ogni risorsa fisica e mentale.

Ci conoscevamo da molti anni e c’era grande fiducia. Da parte loro non c’è stata nessuna forma di resistenza. Certo, alcuni si sono dimostrati un po’ più schivi, perché non volevano essere rappresentati in determinati modi…

Nadine Labaki è quella che compare meno.

Ma non perché mi evitava. Costa Brava, Lebanon è stato girato durante la pandemia di Covid e in quel periodo, sui set, gli attori erano i più isolati, nessuno voleva che si contagiassero. La generosità nei miei confronti è stata grande, e io non l’ho mai data per scontata. Dopo eventi come l’esplosione del 4 agosto, si ha la sensazione che le persone perdano il loro guscio. Esattamente come gli edifici di Beirut, che non avevano più le facciate: restavano solo due o tre pareti e tu potevi guardare dentro le case, negli appartamenti. Cadono le maschere, cadono le protezioni e la gente resta nuda.

Ma progressivamente recupera energia e controllo di sé.

Sì, infatti all’inizio del film, che essendo un documentario è stato girato in ordine cronologico, le persone sono più deboli, piangono più facilmente, vengono sconvolte da qualsiasi cosa, persino da un aereo che sfreccia nel cielo. Questo non succede verso la fine. Nell’ultimo terzo, come ho potuto notare adesso dalle proiezioni con il pubblico, ci sono più comicità, più umorismo nero, più sarcasmo. I miei protagonisti si sono rimessi in piedi, hanno ricostruito le loro facciate.

La cosa interessante è che tu, di Costa Brava, Lebanon, hai curato il montaggio. Quindi, una volta finito di filmare le riprese del film, hai documentato la post-produzione a cui tu stesso stavi lavorando in qualità di montatore, senza però metterti in scena. Il fatto che tu non sia presente fisicamente in Dancing on the Edge of a Volcano mi sembra un fatto molto curioso.

Ne ho discusso molto con i miei produttori, che volevano che comparissi. Ma alla fine ho deciso di rinunciare. Sovrappormi narcisisticamente a situazioni che vengono già raccontate così elegantemente da un’ottantina di persone tra tecnici e attori non avrebbe avuto senso. Sento di essere presente con le mie scelte di regia. E comunque in questa storia io non sono un semplice osservatore: quello che è successo a Mounia e a chi ha preso parte alla lavorazione del suo film è successo anche a me, siamo gli uni il riflesso degli altri.

 

Postato in Festival.

I commenti sono chiusi.