Giochi di specchi – Il cinema di Henri Verneuil

di Giulio D’Amicone.

Se si tentasse di approfondire la figura di Henri Verneuil si rischierebbe di rimanere delusi. La voce a lui dedicata nel “Nuovo Dizionario Universale del Cinema” afferma che “V. possiede una tecnica sicura, che si appoggia sull’attenzione continua al rapporto tra i fatti in sede di sceneggiatura, a un suo gusto particolare per la spettacolarizzazione dei momenti forti del racconto, a una ripresa il più possibile sciolta”: caratteri, diremmo, assai poco distintivi. Un po’ meglio vanno le cose nel “Dizionario dei registi del cinema mondiale”, che lo dipinge come un regista in bilico tra il cinema d’azione statunitense e la tradizione francese. Ma in ogni caso si rimane lontani da uno scavo serio.

Facciamo allora un modesto tentativo partendo dalla sua biografia. La famiglia dell’armeno Achod Malakian, classe 1920, raggiunse la Francia quando lui aveva appena quattro anni per sfuggire alle persecuzioni perpetrate dalle autorità turche. In seguito il giovane frequentò la facoltà di ingegneria, ma cominciò ben presto a interessarsi di cinema scrivendo articoli e girando cortometraggi. Esordì agli inizi degli anni Cinquanta adottando il nom de plume Henri Verneuil con cui resterà conosciuto per quarant’anni circa. Scomparve nel 2002.

Difficile, se non impossibile, percorrere una filmografia che vanta oltre cinquanta titoli: ma anche da un piccolo florilegio possono emergere alcuni caratteri in comune. Si può partire proprio dalla sua doppia identità per evidenziare – nell’ambito di una concezione della vita sostanzialmente pessimistica – il tema base consistente nell’instabilità personale. In tal senso il film più rappresentativo è il poco noto La vingt-cinquième heure (La venticinquesima ora, 1967) in cui vediamo Moritz (Anthony Quinn) attraversare la guerra calandosi via via nei panni di diversi personaggi (da contadino a SS) senza un suo effettivo coinvolgimento; e in un paio di occasioni ci sono presentati individui che tentano travestimenti destinati a rivolgersi contro loro stessi. Non per nulla in quasi tutti i suoi film Verneuil inserisce specchi nei quali gli attori si riflettono, duplicandosi.

Pessimismo, abbiamo affermato. Si guardi un film certo divertente come La vache et le prisonnier (La vacca e il prigioniero, 1959): quando sembra che il protagonista sia riuscito a scampare alle maglie dei tedeschi salendo sul treno, l’immagine ci mostra la fiancata del vagone con l’indicazione della meta: la Germania. Finiscono male pure La casse (Gli scassinatori, 1971) e Les morfalous (L’oro dei legionari, 1984). È bensì vero che affrontando il genere poliziesco il regista si schiera dalla parte della legge, ma anche qui non mancano le eccezioni: si guardi l’interessante figura di poliziotto corrotto e crudele incarnato con un certo impegno da Omar Sharif nel citato La casse (a questa sinistra figura Verneuil riserva una brutta sorte che ricorda il finale del grande Vampyr di Dreyer: citazione ironica o tentativo di porsi alla medesima altezza?).

Probabilmente il legalitarismo si deve all’eccessivo spazio concesso a (o preteso da) Jean-Paul Belmondo e alle sue spacconate. Un film come Peur sur la ville (Il poliziotto della brigata criminale, 1975) avrebbe avuto tutti i crismi per classificarsi come un precedente nel sottogenere dedicato ai serial killer se non fosse condizionato dalle acrobazie dell’interprete (inseguimenti continui fino addirittura a una discesa dall’elicottero). Il sodalizio attore-regista era così saldo da conferire all’attore la parte da protagonista anche nel crudo bellico Week end à Zuydcoote (id., 1964), in un ruolo palesemente inadeguato.

Quasi sempre le sceneggiature dei film di Verneuil (che spesso si faceva aiutare da Michel Audiard per i dialoghi) partono da una base letteraria, ossia da un romanzo preesistente: e sono i suoi risultati migliori.  L’osservazione vale anche per i due film che generalmente la critica pone in primo piano, cioè Mélodie en sous-sol (Colpo grosso al casinò, 1963) e Le clan des siciliens (Il clan dei siciliani, 1969), e chi scrive non trova motivi per divergere, sopratutto nel primo caso. Non è difficile tuttavia apprezzare, accanto a queste pellicole a tinte forti, il crepuscolarismo presente in Des gens sans importance (Appuntamento al km. 424, 1956: storia di un camionista la cui routine lavorativa è temporaneamente scossa dall’inaspettata comparsa di una ragazza) e soprattutto Un singe en hiver (Quando torna l’inverno, 1962), dove un Belmondo tenuto a briglia stretta si affianca all’anziano Gabin nel comporre un duo di falliti che tentano di dimenticare il pallido presente in una notte di bagordi.

Prima di collocarsi a riposo, il settantenne Verneuil decide di narrare la sua vita privata nel dittico Mayrig (id., 1991) e 588 rue Paradis (Quella strada chiamata Paradiso, 1992),  toccando forse il punto più basso della sua carriera. L’umana comprensione che si può e si deve avere per le angherie subite dall’etnia armena da parte dei turchi non può giustificare l’insopportabile manicheismo di fondo con cui è tratteggiata la famiglia “povera ma felice” della sua infanzia e soprattutto, nel secondo film, la figura della madre, perfetto stereotipo (interpretata da una Claudia Cardinale mal truccata): chioma candida, bastone da passeggio, vestiario scolorito e zuccheroso sorriso perenne. Ma crediamo che sia uno svarione perdonabile.

In conclusione, tra le tante ottime performance recitative (unica eccezione il mediocre Patrick Dewaere in Mille milliards de dollars, 1962), vorremmo ricordare il personaggio di Tony Nicosia, inappuntabile mafioso in doppio petto splendidamente reso da Amedeo Nazzari nel Clan dei siciliani.

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