di Guido Reverdito.
All’inizio il titolo previsto era Finché c’è il crimine c’è speranza. L’intenzione era quella di far capire sin da subito che uno dei punti di riferimento del terzo capitolo dei viaggi nel tempo della scalcinata banda di ladri cialtroni creata da Massimiliano Bruno nel 2019 fossero certi archetipi della commedia italiana incarnati dal volto iconico dell’Albertone nazionale. Ma il calco col film diretto e interpretato da Sordi nel 1974 (Finché c’è guerra c’è speranza) era parso eccessivamente calligrafico. E quindi si è virato su C’era una volta il crimine.
Un titolo che è non solo una dichiarazione di intenti, ma anche un tributo cinefilo di alto profilo oltre che un’aperta professione di fede. Dietro alla clausola fin troppo abusata dell’Once upon a Time.. (il nostro C’era una volta… sospeso tra il cliché delle fiabe per l’infanzia e l’operazione nostalgia) c’è infatti un riferimento esplicito a chi quella formula l’ha convertita in un marchio di fabbrica poi divenuto sigillo di garanzia per opere destinate a diventare pietre miliari nella storia del cinema stesso.
Se da una parte è impossibile non pensare al Sergio Leone di C’era una volta il West e C’era una volta in America (con una deviazione verso il Quentin Tarantino in salsa leoniana di C’era una volta a Hollywood), dall’altra il richiamo all’epoca d’oro della commedia all’italiana non è contenuto direttamente nel titolo, ma emerge imperioso non appena ci si imbatte in due dei reduci delle precedenti puntate e si scopre il lavoro di restyling caratteriale fatto in sede di sceneggiatura Massimiliano Bruno insieme ad Alessandro Aronadio e ad Andrea Bassi: orfani del Sebastiano di Alessandro Gassmann finito in galera in Ritorno al crimine ma in parte anche del Renatino di Edoardo Leo che qui fa un paio di comparsate solo all’inizio e alla fine, il Moreno di Marco Giallini e il Giuseppe di Gianmarco Tognazzi hanno l’occasione per riscattare una vita da criminali da strapazzo all’insegna degli espedienti.
Come tanti personaggi che nell’era aurea della commedia di casa nostra avevano le facce di Sordi, Gassman e Tognazzi senior (basti pensare a Una vita difficile, Il federale, Tutti a casa o La grande guerra), anche loro trovano lo slancio per rifarsi una verginità morale grazie a un inatteso gesto eroico che li affranca da esistenze segnate dal degrado e da un certo parassitismo italiota ugualmente da stereotipo nazionale.
A permetterglielo è il contesto storico e ambientale scelto da Bruno per completare la propria trilogia col botto: se nei primi due capitoli (Non ci resta che il crimine del 2019 e Ritorno al crimine dello sfortunato anno successivo) la sua banda scalcinata sfarfalleggiava nel tempo per vedersela prima con gli spietati della Magliana e poi coi camorristi in stile Gomorra dei giorni nostri, nel terzo atto veniamo proiettati nell’Italia dell’8 settembre 1943. Ovvero il giorno in cui il paese precipita nel caos più totale per l’armistizio con le forze alleate e l’inizio di un’inevitabile guerra civile tra italiani al fianco della Germania nazista e connazionali schierati dalla parte opposta per liberare il paese in una resistenza armata durata due lunghi anni.
Ed è appunto nel caos di quei giorni che Moreno e Giuseppe precipitano. Non tanto perché ce li scodelli la versione casereccia del cunicolo spazio-temporale di Einstein-Rosen che nel primo capitolo della saga li aveva sputati nel 1982, ma perché il loro progetto di partenza è sottrarre La Gioconda di Leonardo ai francesi nella Parigi occupata dai nazisti arricchendosi a dismisura dopo averla venduta ma ritagliandosi anche un brandello di gloria nel restituire all’Italia uno dei capolavori assoluti dell’arte di ogni tempo.
Un contesto che fa quindi da detonatore naturale al gesto eroico ma che richiama in causa una volta di più l’ispirazione tarantiniana nel disegno dei nazisti, presentati come pagliacci folli nel parossismo della propria malvagità assoluta, ma insieme involontario riferimento alla follia dittatoriale che dal febbraio scorso ha sconvolto l’Europa.
Se le strizzate d’occhi a Leone (la cui trilogia del dollaro è un ulteriore richiamo nel formato della saga sequenziale) e Tarantino non bastassero a livello di cinefilia a grana grossa, questo terzo capitolo affastella intenzionalmente un mix composito di generi assortiti: accanto al cinema fantastico americano c’è il poliziottesco italiano degli anni ’70 (con la sparatoria finale che è un tributo palese a quel cinema), ma anche il dramma storico-bellico e la sua versione parodica. Per arrivare fino al fumetto, qui usato nella parte iniziale per raccontare la parte relativa al furto de La Gioconda.
Non ci resta che il crimine era andato inaspettatamente bene al botteghino: a spingerlo erano soprattutto stati il cast di attori molto amati dagli appassionati del cinema popolare e il meccanismo del viaggio nel tempo che da sempre accattiva le simpatie del pubblico con classici gag legati ad anacronismi e straniamenti vari. Ritorno al crimine, girato a spron battuto a distanza di un solo anno per sfruttare la buona accoglienza riservata in sala al primo capitolo, era stato bloccato dall’emergenza sanitaria in due diversi momenti del suo travagliato percorso distributivo: una volta approdato su Sky come paracadute protettivo, il film ha confermato l’efficacia della formula: in solo una settimana di programmazione, più di un milione di telespettatori lo ha visto sul piccolo schermo.
Una formula che ha dimostrato in effetti di pagare. Se non si vuole scomodare un evergreen come Ritorno al futuro (atto fondatore del cinema popolare del viaggio temporale come svago sci-fi senza troppe pretese scientifiche), basti pensare al precedente nostrano più prossimo: la trilogia di Smetto quando voglio di Sydney Sibilia – cha guarda caso con quella di Massimiliano Bruno ha in comune anche il tema della banda fai da te – aveva indicato la strada da percorrere. E se i dati Cinetel della prima settimana di programmazione in sala di C’era una volta il crimine parlano di un inizio incoraggiante, è difficile non pensare che la formula delle saghe sequenziali che fidelizzano lo spettatore scimmiottando in parte la serialità televisiva possa funzionare da salvagente per un cinema – quello di casa nostra – che in questa seconda parte della stagione sta mostrando di boccheggiare col fiato corto dopo i fuochi d’artificio dell’autunno.
E se la congiunzione di lune può non sembrare casuale (anche se Massimiliano Bruno in più di un’intervista a latere del lancio del film ha solo fatto intuire di essere in procinto di capire se i viaggi spazio-temporali della sua banda di cialtroni possano avere un futuro in TV), non sarebbe arrischiato pronosticare a breve l’approdo sul piccolo schermo di una serie che – grazie ai suoi tempi dilatabili all’infinito – permetta di sfruttare al meglio un formato che sembra avere tutto quel che serve per trasferire in TV l’efficacia della serialità da sequel.