“Freaks Out” di Gabriele Mainetti

di Aldo Viganò.

I quattro “Freaks” (ricordate il film del 1932 di Tod Browning?) del circo Mezza Piotta partono alla ricerca del loro direttore (l’ebreo Israel, interpretato da Giorgio Tirabassi) il quale è sparito nella Capitale, dopo di essersi fatto consegnare tutti i loro soldi con l’obiettivo di fuggire insieme, verso l’America, dalla zona occupata dai nazisti (l’azione si svolge in Lazio nel 1943).

I quattro “fenomeni da baraccone” sono Matilde (“la donna elettrica” che fulmina chi la tocca, interpretata da Aurora Giovinazzo), Fulvio (“l’uomo lupo” di Claudio Santamaria), Cencio (“l’uomo che governa gli insetti” di Pietro Castellitto) e il nano Mario (Giancarlo Martini), dotato del potere di attirare a sé tutti gli oggetti ferrosi.

Cadenzata dagli incontri nel bosco con i partigiani capitanati dal Gobbo, e dai tentativi di sfuggire alla caccia di un perfido ufficiale nazista (Franz Rogowski), ossessionato dalla premonizione del suicidio di Hitler, la trama di Freaks Out è in fin dei conti tutta in questo viaggio di ricerca della verità.

Fondamentalmente si tratta di una favola, quindi; destinata a concludersi con la punizione dei “cattivi” e la vittoria (almeno parziale) dei “buoni”. Ma il fascino del film di Mainetti non sta certo nell’ovvietà di questa trama (pur scritta con grande abilità dal regista insieme a Nicola Guaglianone, già collaboratore di Mainetti nel precedente e super premiato Lo chiamavano Jeeg Robot), quanto deriva direttamente dalla sua dinamica scrittura cinematografica, costruita con grande professionalità e certo debitrice delle molte citazioni interne: da Rossellini (la Resistenza) a Fellini (il Circo), sino soprattutto a Quentin Tarantino (la grande battaglia finale intorno al treno dei deportati).

Per imponenza della messa in scena e per ricchezza (anche se solo in apparenza) dei suoi mezzi produttivi, nonché per l’originale ricostruzione storica e la funzionalità degli ottimi effetti speciali, Freaks Out assume così l’aspetto di un kolossal all’italiana.

Un’opera per molti versi sorprendente soprattutto in questo difficile momento, in cui il cinema nazionale cerca di uscire dalle difficoltà nelle quali lo hanno precipitato gli ultimi decenni, oltre che la più recente pandemia.

Quello di Mainetti e Guaglianone è un film che riesce quasi sempre a centrare le proprie finalità popolari, rivolgendosi a un pubblico universale, capace ancora a lasciarsi coinvolgere e a emozionarsi davanti all’incalzare delle sue immagini, sempre molto curate dal punto di vista estetico e mai facilmente scontate.

In questo clima di crisi del cinema, Freaks Out diventa così come un’ondata di freschezza e di vitalità. Un film accolto anche alla Mostra di Venezia come un’opera a suo modo d’autore che, evitando con cura di perdersi nell’intimismo o nelle barzellette tanto diffuse nel cinema italiano eleva finalmente lo sguardo verso l’alto: cioè alla fascinazione linguistica di un cinema che non si arrende alla banalità del modello televisivo, ma sa fare un uso originale anche delle sue pratiche narrative seriali. Senza aver paura di non essere compreso dalla neo-critica più snob e conservatrice.

 

 

FREAK OUT

(Freak Out, Italia e Belgio – 2021)  Regia: Gabriele Mainetti – soggetto: Nicola Guaglianone – sceneggiatura: Nicola Guaglianone e Gabriele Mainetti – fotografia: Michele D’Attanasio – musica: Gabriele Mainetti e Michele Braga – scenografia: Massimiliano Sturiale – costumi: Mary Montalto – montaggio: Francesco Di Stefano. interpreti e personaggi: Claudio Santamaria (Fulvio), Aurora Giovinazzo (Matilde), Pietro Castellitto (Cencio), Giancarlo Martini (Mario), Giorgio Tirabassi (Israel), Franz Rogowski (Franz). distribuzione: 01 Distribution – durata: due ore e 21 minuti

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