“Dante e il cinema” di Paolo Speranza

di Gianmarco Cilento.

“Dante ci ha lasciato l’apice di tutte le letterature”, sostiene Roberto Benigni, che negli ultimi vent’anni è, che lo si voglia o no, uno dei massimi divulgatori dell’opera di Alighieri. Un’importanza quella del capostipite della letteratura italiana che, nel 700° anniversario della sua scomparsa, non poteva non sommergere i meandri dell’editoria e delle istituzioni con un nutrito stuolo di saggi, testi, convegni, celebrazioni e tavole rotonde alla ricerca di uno specifico Sacro Graal: le verità de La divina commedia e dintorni.

Una di queste verità è stata felicemente soddisfatta; il confronto tra il Sommo Poeta e il cinema ci viene fornito da Paolo Speranza nel suo saggio Dante e il cinema (Gremese, 240 pp.). Con uno stile rigoroso, e una felice puntigliosità archeologica, Speranza ci illustra tutte le opere cinematografiche, dalle origini della settima arte sino ai giorni nostri, tratte dai testi del poeta fiorentino o che raccontano della sua vita.

In tante pagine, illustrate con un certo gusto grafico, l’autore compone quello che è ad oggi lo studio definitivo su questi film, anche presi singolarmente. Certo, è il frutto del lavoro di ricerca di un attentissimo studioso di cinema, che in quest’occasione ci appare molto più come uno storico nel senso vero del termine.

Dal primo cortometraggio Francesca da Rimini or the two brothers, girato negli USA nel lontano 1907, al più recente In viaggio con Dante (2018) di Lamberto Lambertini, ecco comparire davanti ai nostri occhi una lista di 34 film, tra corti, lungometraggi e serie televisive, alcune di queste vere e proprie gemme. Basti pensare a quel primo Inferno del 1911, primo vero capolavoro del cinema italiano, e che possiamo considerare anche come uno dei primi horror di tutti i tempi, o al successivo La mirabile visione (1921) di Luigi Sapelli, vero e proprio film biografico su Dante, recentemente restaurato dalla Cineteca Nazionale, e che speriamo di poter vedere il prima possibile sugli schermi televisivi o su internet per la pubblica fruizione, al fine di aumentare la nostra cultura e il nostro “illuminismo”. Ma anche opere più recenti, seguite con molta attenzione dagli italiani, come lo sceneggiato Vita di Dante (1965) con Giorgio Albertazzi nelle vesti del poeta. E, last but not least, i progetti, purtroppo, non realizzati sull’Inferno di Federico Fellini, di cui possediamo fortunatamente un’ampia documentazione.

Parlare di Dante non è così facile, specialmente dopo la saturazione saggistica dell’argomento, e quasi nessun testo a riguardo ormai non può evitare di cadere nella retorica o eccedere in presunzione. La quasi totale “divinizzazione” della sua opera, entità linguistica di un tempo così remoto e imaginifico, ha il sapore di una corrente dialettica che, in un certo senso, ha unito più di tutti gli italiani, ma anche il cinema e le altre arti.

Proprio per questo Speranza non rinuncia alla sua stoffa critica. Anzi, si mette in gioco nella rilettura di quel cinema, mettendolo a confronto con l’opera di partenza. E va fino in fondo, arrivando perfino a un’analisi di tutte le citazioni dantesche in quei film dove l’argomento trattato è tutt’altro. Tornando al cinema dichiaratamente “dantista” (Pasolini docet), l’autore cerca anche di riabilitare qualche film ignorato dal grande pubblico italiano, come il soave Notre musique (2004) di Jean-Luc Godard, composto da tre capitoli intitolati proprio come le cantiche de La divina commedia.

Con questo delicato ritratto in tante pagine, Speranza ci fornisce una bella riflessione sul poeta e sulla settima arte. La sua serietà da divulgatore archeologico, tutt’altro che gargantuescamente pedante, trasmette felicemente al lettore i risultati delle sue ricerche.

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