“Lasciali parlare” di Steven Soderbergh

di Aldo Viganò.

Con il passare degli anni, Steven Soderbergh (Atlanta 1963) non ha mai dimesso la tentazione di usare il cinema come territorio non tanto di sperimentazione linguistica, quanto di sfida tematica, strutturale, tecnica e produttiva. Il che sposta subito il discorso sul suo cinema dalla riflessione estetica a quella più esplicitamente commerciale.

Al ritmo anche di più di un titolo all’anno, Soderbergh è venuto infatti così a firmare, nel corso del tempo, una serie di opere molto discontinue, sovente anche pasticciate pur per molti versi quasi sempre intriganti, almeno sul piano professionale. Ne è nata, pertanto, una filmografia fondamentalmente eccentrica, che mescola opere molto diverse tra loro, tanto che, in fin dei conti, più che aiutarci a cogliere la presenza di un autore, nel loro insieme sembrano tutte ribadire il loro fondarsi su un partito preso programmatico, a volte anche bizzarro; dando ora origine a film d’impegno tematico (Erin Brockovich e i due Che) e ora a pellicole esplicitamente spettacolari (Ocean’s Eleven, Twelve e Thirteen), alternate con altre che strizzano l’occhio alle statuette degli Oscar (Traffic, Contagion o Magic Mike). Comunque aspiranti tutte a distinguersi da ciò che gli altri in quel momento stavano già facendo o si attendevano da lui.

Ecco così che dopo il suo primo lungometraggio (Sesso, bugie e videotape, 1989), il quale gli aprì le porte del successo internazionale, Soderbergh è venuto a realizzare (assumendosi sovente anche gli oneri della direzione della fotografia e del montaggio) tanti film anche molto diversi tra di loro: ora convenzionali e ora sperimentali, ora costruiti sul modello della classicità e ora ostentanti la propria diversità anche facendo ricorso a nuovi supporti di ripresa (basti ricordare che Unsane e High Flying Bird sono stati girati con un iPhone 8).

Non sorprende più di tanto, quindi, che ora, con questo suo Lasciali parlare, Soderbergh si sia lanciato nella sfida di realizzare un film praticamente senza sceneggiatura, ma con tre dive hollywoodiane di primo piano (oltre a Meryl Streep, già posta al centro di Panama Papers, nel cast ci sono anche Candice Bergen e Dianne Wiest), alla cui improvvisazione egli ha affidato il compito di dare vita ai dialoghi tra i personaggi, in base a un canovaccio (firmato da Deborah Eisenberg), nel  corso di una crociera di dieci giorni a bordo del “Queen Mary II”, da New York alla Gran Bretagna.

La situazione data è la seguente. Invitata a ritirare un premio in Inghilterra, il già premio Pulitzer Alice Hughes (Meryl Streep) dapprima si nega, poi accetta solo a queste condizioni: niente aereo, ma nave; e che nel lussuoso viaggio l’accompagnino (a spese della casa editrice), oltre al nipote, anche le sue due migliori amiche, che lei aveva perso di vista da anni. Il perché di questa bizzarra scelta, accettata pur con qualche dubbio dagli editori, verrà spiegata solo nelle poco inventive sequenze finali; ma evidentemente per Soderbergh e le sue attrici al centro del film sta soprattutto altro.

Perché quell’amicizia femminile si ruppe? Quale scia di rancori e di ferite personali quella rottura ha lasciato? Su questi argomenti meglio sorvolare, per non vanificare quel ricercato clima d’attesa; ma nel film ci sono anche i maneggi della coppia più giovane (lo strano comportamento del nipote di Alice e le ambizioni della segretaria della casa editrice) e più in generale, sotto traccia, forse traspare anche una riflessione sul rapporto autoriale tra la vita e l’opera, o qualcosa di simile.

Praticamente, però, quello che infine s’impone sullo schermo è poco più del piacere calligrafico di Soderbergh di girare lunghi e lenti carrelli all’interno del transatlantico da crociera e di lasciare libero sfogo alle chiacchiere delle sue protagoniste, che di fatto riescono solo a rivelare che anche nel cinema le competenze individuali hanno un senso e che la bravura di un’attrice o di un gruppo d’attori si rivela solo quando recitano una parte scritta da professionisti. Per il resto, come aspramente diceva Hitchcock, gli attori restano solo “bestiame da accudire” e lasciarli troppo liberi finisce col diventare soltanto un partito preso che forse piacerà (come sembra stia accadendo in Italia a proposito di questo film) anche ai critici, ma che di fatto, per citare ancora Hitchcock a proposito questa volta del suo Nodo alla gola, si corre il rischio di compiere un’operazione “completamente senza senso”, costringendo il regista solo a perdere tempo per rispettare i paletti che egli stesso ha posto tra se stesso e la realtà vivente dei personaggi.

 

LASCIALI PARLARE

(Let Them All  Talk, USA, 2020) regia, fotografia e montaggio: Steven Soderbergh – sceneggiatura: Deborah Eisenberg – musica: Thomas Newman – costumi: Ellen Mirojnick. interpreti e personaggi: Meryl Streep (Alice Hughes), Candice Bergen (Roberta), Dianne Wiest (Susan), Gemma Chan (Karen), Lucas Hedges (Tyler) distribuzione: Warner Bros. – durata: un’ora e 53 minuti

 

 

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