La nuova ripartenza: Segnali di risveglio per un futuro tutto da scrivere

di Guido Reverdito.

Una cosa è certa. Dallo scorso 26 aprile il cinema ha riaperto i battenti. A ranghi ridotti e con tutte le limitazioni del caso imposte dalle condizioni in atto, ma ha riaperto. Se poi anche questa si rivelerà una falsa (ri)partenza come quella dell’estate scorsa (strozzata dal riacutizzarsi autunnale dei contagi in quello che avrebbe voluto essere un trampolino di rilancio per una riapertura invernale a pieno regime e senza il freno a mano tirato) lo scopriremo soltanto vivendo. E potendo fare i conti quando i numeri legati allo sperato miglioramento dell’emergenza sanitaria in atto lo consentiranno e se il rapporto ormai da troppo tempo conflittuale tra esercenti e distributori si sarà finalmente convertito in un’alleanza strategica a livello di programmazione e di disponibilità di prodotti da sfruttare per il rilancio.

Per ora, a due settimane scarse dalla fatidica data in cui il Governo Draghi ha permesso alle sale di riaprire, quelle che hanno coraggiosamente deciso di rispondere a un invito atteso da più di sei mesi sono solo un quarto di quelle potenzialmente in grado di operare (stando ai dati messi a disposizione da Cinetel, delle oltre 1200 sale censite – che però non sono veramente tutte quelle del paese reale – solo meno di 300 hanno ripreso l’attività).

Se da una parte la sete di cinema da fruire in quella che è la sede deputata per antonomasia a farlo poteva far pensare a una risposta di altro tenore sia da parte degli esercenti che del pubblico degli appassionati in astinenza forzata ormai da quasi un anno, dall’altra sono molti i fattori di varia natura che hanno inciso sui numeri di queste prime settimane di timida ripresa e che sicuramente continueranno a giocare un ruolo decisivo a livello di deterrente. Proviamo a passarli in rassegna. Non fosse altro che per tentare anche solo di capire quanto possano essere decisivi per immaginare un possibile ritorno alla normalità di un tempo.

Un anno trascorso sui divani di casa a consumare cinema sulle forme più disparate di canali on demand (VOD) e piattaforme digitali ha avuto conseguenze potenzialmente devastanti. Non solo nelle fasce di pubblico già di per sé inclini a preferire la comodità domestica alla complessità di un’uscita mirata, ma anche in quello zoccolo duro e puro di spettatori tradizionali che per lunghi mesi hanno resistito incrollabili alle sirene del telecomando sognando il giorno in cui poter tornare a godersi una pellicola con tutti i crismi del caso e la fascinazione insostituibile del non poter essere in grado di governare in proprio i tempi e i modi dell’esperienza visiva.

A questo va poi aggiunto il perdurante timore che il cinema in quanto luogo di aggregazione collettiva possa essere veicolo potenziale di contagio. Una paura questa facilmente fugabile sia col ricorso ai dati emersi da studi fatti in paesi che già lo scorso anno avevano avuto la possibilità di riaprire al pubblico (studi che avevano evidenziato come le sale cinematografiche fossero uno dei luoghi più sicuri e meno forieri di rischi da contagio rispetto a qualsiasi altra area di aggregazione collettiva), ma soprattutto con l’adozione – da parte di quanti hanno accettato di riaprire – di tutte le misure imposte per rendere sicura la presenza del pubblico. E cioè la sanificazione degli ambienti tra uno spettacolo e l’altro, l’uso obbligatorio di mascherine, la rilevazione della temperatura all’ingresso e soprattutto il distanziamento tra i posti in sala e la capienza ridotta del 50%.

Questo per quanto riguarda l’universo multiforme e ondivago degli spettatori. Ma che dire dell’atteggiamento degli esercenti? Ovvero di chi invece il cinema lo deve materialmente mettere a disposizione a quel tipo di pubblico potenziale, reduce da un anno di astinenza e certamente ansioso di poter riallacciare il filo con l’abitudine di una vita? Le ragioni per cui molti esercenti (siano essi i potenti circuiti delle multisale o i gestori di quelle medio piccole di quartiere che hanno retto all’onda d’urto delle leggi di mercato prima e della pandemia nell’ultimo anno) abbiano deciso di non reagire con eccessivo entusiasmo all’invito alla riapertura a partire del 26 aprile scorso sono molto più complesse e articolate e in parte fondano la propria ragione di essere anche in aspetti del tutto extra cinematografici.

La capienza ridotta è probabilmente uno degli argomenti più gettonati a questo proposito. Il rapporto tra costi e benefici in relazione alla riduzione del 50% delle presenze potenziali è un dato impietoso: con metà sala irreparabilmente deserta (sempre partendo dal presupposto del tutto teorico che l’altra metà sia veramente piena) si rischia di non arrivare nemmeno ad ammortizzare le spese per il personale di sala e di proiezione nonché i costi attivi legati alla distribuzione.

A questo va poi aggiunto un ulteriore deterrente agli incassi potenziali: con il coprifuoco in vigore fino alle 22 (nel momento in cui scriviamo è stato annunciato che vi sarà l’estensione di un’ora, fino alle 23, a partire dal 19 maggio), la programmazione – che negli ultimi anni aveva già visto in molti casi sostituire le due tradizionali con quella unica intorno alle 21 – deve rinunciare alla fascia postprandiale riducendo così il ciclo a due proiezioni al giorno. Una a metà pomeriggio e l’altra in orario scomodissimo a cavallo con la cena.

E qui si arriva a dover affrontare alcuni degli aspetti determinanti che finiscono con l’avere un’incidenza esiziale sull’anello finale dell’intera filiera (gli esercenti) ma che dipendono da fattori eminentemente legati all’industria del cinema stesso. Incerti sul da farsi per l’imprevedibilità di un futuro legato all’indecifrabilità di un presente da troppi mesi in costante fluttuazione tra moderati entusiasmi e dolorose frustrazioni, i distributori hanno scelto una politica attendista che, in alcuni casi, ha virato verso l’immobilismo più assoluto.

Ci sono più di cento titoli bloccati nei magazzini della distribuzione. I film di maggiore richiamo che erano stati annunciati già prima dell’esplodere della pandemia lo scorso febbraio e che erano poi stati ri-pubblicizzati come in rampa di lancio quando le sale avevano riaperto i battenti a fine agosto sfruttando il traino delle sale estive sono ancora ai blocchi di partenza. I distributori esitano a metterli in circolazione non solo perché temono che vi possa essere l’ennesimo contraccolpo di un forzato richiamo successivo a una campagna di battage pubblicitario, ma soprattutto perché preferiscono non bruciarli in un momento in cui le condizioni generali non ne permettono uno sfruttamento in linea con le aspettative.

Chi ha deciso di sfidare la sorte ha scelto politiche di lancio diverse. L’usato sicuro è stata una di queste. Film già passati con alterne fortune sulle piattaforme (un caso fra tutti Mank, plurinominato ma uscito con un pugno di mosche dalla notte degli Oscar) vengono riproposti in sala con la speranza che chi ne abbia sentito parlare ma non si sia piegato al ricatto della visione domestica possa andarli a recuperare in sala. E da noi si possono citare esempi del tipo di Favolacce o Cosa sarà, due film usciti prima su piattaforme VOD e adesso in sala in varie città. O addirittura si è arrivati a ripescare titoli di culto (vedi il caso delle riedizioni di In the Mood for Love o Il favoloso mondo di Amélie, riproposti anche se solo per pochi giorni in alcune sale delle più grandi città).

E se questo tipo di opzione può di certo essere sinonimo di cautela prudenziale finendo col non pagare troppo, molti distributori hanno invece scelto di affidarsi ai due eventi chiave quali gli Oscar e, almeno in piccola parte, ai David di Donatello per lanciare in sala prodotti di grande richiamo che possano solleticare il palato degli appassionati e allinearsi al mantra di chi il cinema lo fa e, mai come in questo periodo, insiste sull’invito ad andare a vedere i film nel solo luogo dove questo tipo di prodotto può essere fruito appieno. E cioè nel buio di una sala cinematografica tradizionale.

Nomadland – uno dei titoli sfruttati per questo tipo di traino – è uscito trionfatore nell’anomala edizione 2021 degli Oscar in era (post)pandemica. Anomala sia per la riduzione di un quarto del numero di spettatori che l’hanno seguita dal vivo che soprattutto per le novità della formula nella proclamazione dei vincitori e per il dominio quasi tirannico di ragioni politiche legate alle urgenze sociali e culturali del momento a scapito di quelle più squisitamente cinematografiche. Sul film che ha regalato a Frances McDormand il suo terzo Oscar come miglior attrice (e non a caso questa anti-star con capelli sporchi e spettinati, mentre reggeva in mano la statuetta appena conquistata, gridava radiosa “Guardate il nostro film su uno schermo, il più grande possibile!”), la Disney ha investito molto a livello distributivo, pur riservandosi di rinforzare il messaggio con un lancio parallelo del film anche sulla propria piattaforma in streaming.

E se lo stesso si può dire per il relativo outsider rappresentato dal coreano Minari (che insieme al film della cino-americaba Chloé Zhao ha dato segnali importanti al botteghino di casa nostra nel primo settimana di riaperture), come spesso accade in tutte le principali kermesse di cinema in giro per il pianeta, la maggior parte dei film premiati nella notte degli Oscar hanno avuto una circolazione molto ridotta già negli stessi Stati Uniti, dove le sale hanno riaperto senza eccessive limitazioni di capienza già prima di Natale, e rischiano addirittura di non arrivare affatto in sala. Né dall’una né dall’altra parte dell’oceano.

Ma c’è anche chi ha cercato di resistere fino alla fine, conservando per scenari più rassicuranti i titoli di maggior richiamo del proprio magazzino senza cedere alle lusinghe delle piattaforme (o facendolo solo in zona Cesarini, come nel caso di Si vive una volta sola, ultimo film di Carlo Verdone, annunciato in uscita già in almeno tre diverse occasioni nell’arco del 2020 e adesso finalmente in sala ma allo stesso tempo disponibile per gli abbonati di Prime Video) e alla voracità con la quale questo tipo di fruizione domestica del cinema ha saputo approfittare del contesto creato dalla pandemia.

Un contesto in cui il già esile diaframma tra l’uscita di un titolo in sala e il suo possibile sfruttamento in VOD o sulle varie piattaforme esistenti è stato ulteriormente assottigliato da un decreto emanato dal Ministro Franceschini lo scorso 1° maggio: se prima la legge imponeva che un prodotto italiano finanziato dallo Stato avesse una tenitura in sala di almeno 105 giorni, questa finestra temporale è stata adesso ridotta di quasi un terzo, arrivando a essere solo di 30 giorni.

Se a questo poi si aggiunge che di qui a settembre pare che non sia prevista l’uscita di alcun titolo italiano di un certo profilo e richiamo (come lamentano ANEC e FICE, le due associazioni di categoria degli esercenti), e che di solito la tarda primavera e l’estate sono i due momenti in cui la distribuzione ha mostrato storicamente di avere meno coraggio nel promuovere lungometraggi ambiziosi e potenzialmente forti, il rischio che anche questa ripartenza possa diventare una nuova falsa partenza è meno di un’ipotesi pessimistica.

Ma dopo un anno come quello che stiamo facendo tutto il possibile per lasciarci alle spalle, una ventata di velato ottimismo è d’obbligo. Le notizie positive non sono mancate: oltre alla già citata riapertura delle sale, non può essere passata sotto silenzio quella che riguarda la definitiva abolizione in Italia della censura preventiva per i film. Così come va salutato con adeguato entusiasmo il fatto che i maggiori eventi festivalieri in programma nei prossimi mesi (si parte da Cannes, tatticamente posticipato da maggio a luglio per poter beneficiare di migliori condizioni sanitarie generali legate alle politiche di vaccinazione di massa in atto nella maggior parte dei paesi europei) sono già stati annunciati come in presenza. Il che non potrà che essere un elemento propulsivo per indurre il grande pubblico a tornare in sala, ma anche la distribuzione a inondare i cartelloni di tutti quei titoli importanti che ormai da troppi mesi stazionano nei magazzini in attesa di essere sparati quando verrà il momento adatto per dare la stura al meglio del proprio arsenale pirotecnico.

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