Latitudine Italia – Corda a casa dell’impiccato?

di Guido Reverdito.

A quasi due mesi dal faticoso e tribolato re-inizio ufficiale della nuova stagione al cinema dopo la lunga pausa della clausura da lockdown, è tempo di fare un primo (e ovviamente provvisorio) bilancio sullo stato di salute del cinema italiano. Chiedersi in questo momento come stia il cinema di casa nostra potrebbe sembrare una variante sadomasochistica della classica situazione da corda menzionata in casa di chi si è impiccato da poco.

In realtà le cose non stanno affatto così. O, per lo meno, la situazione generale in cui versa l’intera categoria (da chi investe capitali per produrre cinema a chi scrive e dirige ma ovviamente anche a chi gestisce le sale passando per il delicato nodo della distribuzione, in questi giorni nell’occhio del ciclone per complesse ragioni di cui si parlerà qui di seguito) potrebbe essere descritta in tinte meno funeree di come la si sente presentata. Sia da chi sugli organi di stampa e sui social media insiste sulla sua supposta agonia, sia soprattutto da chi invece nel settore ci opera attivamente e fa i conti giorno dopo giorno con uno stato dell’arte mai visto prima in oltre un secolo di storia fatta di alti e bassi e anche di momenti di difficoltà concrete dettate da fattori contingenti e non legati ad alcuno degli àmbiti del mondo del cinema.

E per quanto difficile sia stata la ripartenza– e a tutt’oggi lo sia ancora mentre lo spettro di un ritorno al tutti a casa aleggia sulle teste di ogni categoria di operatori della filiera –, ci sono segnali e dati vagamenti incoraggianti che hanno fatto sembrare meno faticoso il tentativo di ritorno a qualcosa che somigli anche solo lontanamente a un ritorno alla normalità. Nel contesto di crisi planetaria che ha travolto praticamente ogni settore produttivo e quindi anche quello dell’intrattenimento, il cinema italiano ha però tratto parziali e inattesi benefici da una serie di fattori esterni che hanno favorito non solo l’accesso alla programmazione di un numero maggiore di titoli di casa nostra, ma soprattutto una più lunga tenitura di film che in altri momenti avrebbero avuto vita breve e l’opportunità per le sale d’essai o comunque estranee ai grandi circuiti delle multisale di attirare pubblico con un’offerta di qualità.

 

Il traino veneziano

Il primo elemento che ha contribuito in maniera determinante all’attivazione di questo circolo virtuoso è stato certamente il Festival di Venezia. Grazie alla meritoria testardaggine del Presidente della Biennale Roberto Ciccutto e soprattutto del direttore della rassegna Alberto Barbera, un festival che avrebbe dovuto ricalcare la tendenza di quanto in atto nel resto del pianeta venendo così mortificato dalla versione a distanza e senza presenza di pubblico, si è invece svolto in maniera quasi tradizionale. Ovvero con sale aperte (seppure con accessi contingentati e con rigoroso rispetto del distanziamento sociale previsto dalle norme vigenti), incontri con la stampa (con giornalisti del settore e operatori sempre “mascherati”) e addirittura il canonico red carpet (seppure in versione blindatissima al punto da essere definito dallo stesso Presidente Ciccutto come una sorta di “luogo metafisico alla De Chirico”).

Il tutto con al centro tanto cinema di qualità in una selezione che aveva – tra i non pochi obiettivi prefissatisi da chi ne è stato l’accorto regista – forse anche quello di intercettare le fibrillazioni del tragico presente con una sorta di mappatura di tendenze della produzione internazionale del momento, per dimostrare la vitalità del cinema attraverso una vetrina in cui ci fosse spazio per nomi meno noti di cineasti comunque capaci di leggere le angosce dello stato di cose in atto anche col ricorso a strumenti apparentemente in controtendenza quali l’ironia o la commedia.

Venezia ha mostrato e dimostrato che tornare nelle sale era ed è possibile (fermo restando che mentre scriviamo una seconda ondata pandemica si sta abbattendo sul paese e non è escluso che a breve si debba tornare a un tragico serrate destinato a colpire anche le sale facendo rimpiombare l’intera filiera nella notte del lockdown forzato). Certo, un ritorno con tutte le attenzioni del caso e rispettando quanto previsto dai vari decreti emessi dal Governo in materia di fruizione di attività aggregative quali quella del cinema consumato nelle sale.

Un’attenzione e un rispetto tanto scrupolosi da portare Domenico Dinoia (Presidente dell’ANEC Lombardia oltre che storico presidente e portavoce della Federazione dei Cinema d’Essai FICE) a dichiarare che, a livello di precauzioni e rischi potenziali, le sale cinematografiche risulterebbero al momento uno dei luoghi più sicuri in assoluto per quanto riguarda la socializzazione condivisa: nella maggior parte delle sale vige infatti la prenotazione obbligatoria dei posti (che sono comunque alternati per evitarne l’occupazione contigua da parte degli spettatori), mentre l’uso tassativo della mascherina e il codice del silenzio che impera sovrano durante le proiezioni contribuiscono in maniera decisiva a ridurre i rischi di diffusione di germi.

Ma Venezia ha anche indirettamente garantito una forte spinta al cinema italiano: tanto il film di apertura (Lacci di Daniele Luchetti) quanto quello di chiusura (Lasciami andare di Stefano Mordini) sono stati all’insegna del tricolore. Ma anche nelle varie sezioni in cui il Festival si articolava sono stati proposti titoli italiani di autori importanti o che hanno comunque suscitato l’attenzione necessaria per dare la stura a dibattiti extra festival che poi, a loro volta, hanno contribuito a invitare in sala il pubblico non festivaliero. Dal nuovo e discusso documentario di Gianfranco Rosi Notturno a quello che Luca Guadagnino ha dedicato a Salvatore Ferragamo in Salvatore. Shoemaker of Dreams; dai biografici e autobiografici Padrenostro di Claudio Noce (con Coppa Volpi a Pierfrancesco Favino come migliore attore maschile non protagonista)e Miss Marx di Susanna Nicchiarelli, fino ad arrivare a Le sorelle Macaluso di Emma Dante, scelto come miglior film dalla giuria del SNGCI o ancora alla rivelazione de I predatori del figlio d’arte Pietro Castellitto, brillante film d’esordio la cui sceneggiatura è stata ritenuta la migliore tra tutte quelle dei titoli presenti nella sezione “Orizzonti”.

Tutti questi film, unitamente a un discreto drappello di lungometraggi tenuti in caldo per la tanto attesa riapertura post estiva di molte sale (con qualche esordio di notevole profilo quale Non odiare di Mauro Mancini, Easy Living – La vita facile dei gemelli Miyakawa e Paradise – Una nuova vita di Davide Del Degan, o ancora con titoli interessanti di autori di nicchia quale Spaccapietre dei gemelli De Serio, Assandira di Salvatore Mereu e Il grande passo di Antonio Padovan, se non addirittura con commedie più leggere rivolte a un pubblico da strappare al consumo seriale in TV quali l’insolito Guida romantica a posti perduti di Giorgio Farina o il più giovanilistico Sul più bello di Alice Filippi) hanno contribuito a rimpolpare in maniera massiccia la presenza del cinema di casa nostra nelle sale che hanno riaperto i battenti.

È innegabile che la lettura dei dati del box office dall’inizio di agosto alla seconda metà di ottobre non possa certo far sorridere se confrontata con lo stesso periodo dello scorso anno. Le cifre raccolte ai botteghini sono talmente esigue che, nella maggior parte dei casi e con l’esclusione del blockbuster salvatutti Tenet e alcuni maratoneti di peso come Favolacce dei gemelli D’Innocenzo o Gli anni più belli di Gabriele Muccino, si rischia quasi di non arrivare nemmeno a coprire le spese di esercizio delle sale. Ma tant’è il plotone dei titoli italiani è particolarmente nutrito per quantità e qualità. Il dato che però colpisce di più è la resistenza a livello di programmazione di titoli che, in altri tempi e in diverse condizioni di non emergenza come quella che stiamo vivendo al presente, avrebbero avuto vita breve e sarebbero stati schiacciati dalla concorrenza dei pesi massimi arrivati dal mercato USA. Ma proprio qui sta un elemento a sorpresa che giustifica almeno in parte la buona salute del cinema italiano nelle sale.

 

Il blockbuster che non c’è

Tra i tanti effetti devastanti che il dilagare planetario del COVID-19 ha (con)causato spesso con disastrosi effetti domino ce n’è anche uno che ha involontariamente invertito una tendenza in atto ormai da più di un decennio nel mercato cinematografico italiano ma anche europeo. Se per molti anni si è infatti assistito a un processo di lenta ma inesorabile fagocitazione del mercato da parte delle multisale responsabili della morte annunciata delle piccole sale indipendenti (solo poche delle quali, in quasi tutti i grandi centri, hanno avuto la forza di resistere ricorrendo a espedienti di varia natura), la ripartenza estiva ha fatto registrare un’inattesa inversione di tendenza rimescolando le carte in maniera del tutto inattesa.

Si è trattato anche qui di un insolito e bizzarro effetto domino. Le grandi corporation americane – preoccupate dal crollo di presenze in sala da entrambe le parti dell’oceano e convinte che sia bene attendere una vera ripresa prima di giocarsi le carte più importanti – hanno infatti deciso di posticipare a tutto il 2021 o addirittura anche al 2022 la distribuzione dei quei grossi titoli-evento dei propri cataloghi che avrebbero garantito un forte richiamo in sala.

E siccome i multiplex hanno da sempre perseguito una politica di scelte incentrate per la maggior parte su blockbuster del mercato americano, relegando la produzione minore in orari e spazi da vassallaggio della gleba, ora che la major a stelle e strisce hanno pavidamente deciso di bloccare le uscite e tenersi in soffitta i pezzi da novanta per metterli in campo quando tornerà uno straccio di normalità ovunque nel mondo, a pagare il conto più salato sono state proprio le multisale. Alcune delle quali non sono riuscite a reggere l’onda d’urto di questa inversione di tendenza e sono state costrette a chiudere i battenti.

L’elettrocardiogramma di questa respirazione a singhiozzo è una lista di filmoni che il mercato aspettava con ansia conscio che il loro approdo in sala avrebbe potuto garantire a tutti una grossa boccata d’ossigeno. L’elenco è lungo e sembra una via crucis nel segno dell’assenza: su tutti domina il 25esimo Bond della saga, No Time to Die di Kary Fukuyaga. Annunciato in arrivo lo scorso aprile e poi bloccato per le ragioni che tutti ben conoscono, era stato prima rimandato a novembre mentre ora pare che verrà estratto dalle macerie dei rinvii solo a fine aprile del prossimo anno. Lo stesso dicasi per un triplete di fantasy da urlo: Dune di Denis Villeneuve era atteso per novembre di quest’anno, finendo poi con l’essere traghettato a ottobre del prossimo dopo una promessa di uscita natalizia; il non meno atteso The Batman di Matt Revees con cast di superstar pare approderà in sala a marzo del 2020 dopo essere stato annunciato per gli inizi di ottobre di quest’anno; e stesso destino attende Wonder Woman 1984 di Patty Jenkins: si parla di gennaio 2021, ma tutto è in mente dei. Non meno attesa c’era poi per il remake che Spielberg ha deciso di fare del musical cult West Side Story: non ostante la pubblicizzata irritazione e le reiterate proteste di uno dei grandi guru del cinema americano, il film uscirà a Natale dell’anno prossimo, anche se in origine era previsto in cartellone per le festività natalizie di qui a due mesi.

Chi ne ha beneficiato sono state, almeno in parte, le piccole sale ma soprattutto il prodotto nostrano a chilometro zero e dintorni. E a dimostrarlo non sono solo i dati Cinetel sugli incassi al botteghino, ma soprattutto la tenitura di titoli che, in altri tempi, avrebbero retto al massimo il battito di ciglia di cinque giorni di programmazione. O non sarebbero approdati nemmeno nella maggior parte delle sale.

Nulla vieta di pensare che si tratti del più classico dei fuochi fatui. E non a caso gli esercenti non smettono di far sentire la propria voce per lamentare l’arrivo col contagocce di nuovi titoli e l’inspiegabile atteggiamento del mercato della distribuzione che, riducendo all’osso i prodotti lanciati sul mercato per paura di bruciarli in assenza di un ritorno ai botteghini, dà l’impressione di credere che l’emergenza sanitaria possa terminare a breve, ma non si accorge di spingere il pubblico potenziale verso differenti alternative di fruizione. Ovvero le piattaforme in streaming che, non a caso, negli ultimi mesi non solo hanno decuplicato il proprio giro di affari, ma stanno lentamente occupando quegli spazi lasciati liberi da chi il cinema lo dovrebbe produrre e distribuire. Se però anche fosse soltanto un fuoco fatuo che fa brillare il prodotto di casa nostra mentre su tutto grava l’ombra cupa di una crisi che pare irreversibile, perché non riscaldarsi a questa illusoria fiammella illudendosi che possa essere la scintilla da cui possa scaturire una potente fiammata di qui a Natale?

Postato in Cinema Italiano.

I commenti sono chiusi.