“Split” di M.Night Shyamalan

di Renato Venturelli.

“The Visit” ci aveva ridato la speranza, con “Split” arriva adesso la conferma. E’ tornato M.Night Shyamalan, dopo un grande film incompreso come “E venne il giorno”, ma anche dopo i due effettivi fallimenti di “Il dominatore dell’aria” e “After Earth”. Messi da parte i blockbuster, scaricato il coinvolgimento in grandi produzioni, Shyamalan è ripartito con “The Visit” dal grado zero dell’horror contemporaneo, ed è ora rimasto fedele al nuovo corso delle produzioni Blumhouse, realizzando un film a basso budget che vive quasi tutto sul filo della regia, delle immagini e della messinscena, secondo un’idea purissima di cinema.

Al centro, l’ormai stranoto personaggio di James McAvoy, un solitario affetto da personalità multiple, che prima rapisce tre ragazzine, poi le trasporta prigioniere nel misterioso sotterraneo in cui vive e comincia a inscenare un grottesco teatrino dell’inconscio: apparendo davanti a loro di volta in volta nelle sue più diverse incarnazioni, parlando di un’orrenda Bestia intenzionata a divorarsele, alternando le sue esibizioni sulla scena carceraria con le performance davanti alla psichiatra che lo ha in cura (la Betty Buckley del “Carrie” di De Palma, il cui spirito aleggia sul film anche per i vari “Vestito per uccidere” o “Doppia personalità”).

La sceneggiatura lambiccata rispecchia le tortuosità interiori del protagonista, i richiami agli abusi infantili subiti dall’uomo e da una delle ragazzine (Anya Taylor Joy) non svolgono la funzione di banali esplicazioni psicologiche ma vanno a intrecciarsi attraverso mille fili in una complessa logica di messinscena. Lo spazio della casa-prigione diventa quasi un assoluto, le porte non conducono mai a nessun esterno, le finestre sono disegnate come quinte teatrali, scenografie infantili di spazi illusori che rimandano sempre e soltanto quelli della mente e del cinema, così come il carnefice e la sua prigioniera da svelare a poco a poco, maglia dopo maglia, sono quasi sempre ripresi in inquadrature frontali, a volte perfettamente simmetriche, dove i corpi vengono sbalzati con la nettezza dell’onirismo surrealista e dei fumetti pop.

“Split” è un film sui mille volti di James McAvoy e del suo personaggio multiplo, ma anche un film che parte nella sua prima inquadratura dallo sguardo della Casey di Anya Taylor Joy, la ragazzina che ha conosciuto il dolore e che per questo è fin dall’inizio isolata tra le compagne nel locale da cui prende il via la vicenda, “doppio” del protagonista maschile, occhio privilegiato del teatrino che l’uomo andrà a mettere in scena. E in un analogo locale il film andrà puntualmente a richiudersi, fedele alla sua struttura oscuramente simmetrica, dove spazi, sguardi, inquadrature rimandano sempre a una trappola circolare, lo zio Lupo Cattivo che incombe sulla bambina-Cappuccetto Rosso (col fucile del cacciatore) riecheggia il Lupo Cattivo che intrappola le tre porcelline, perfino le gambe dell’anziana psichiatra seduta su un divano possono rimandare alle gambe della madre china per stanare il bambino sotto il letto.

Ripartendo da un B-terror solo apparentemente dimesso, “Split” è un film sempre pensato in maniera schiettamente cinematografica, senza esibizionismi pomposi di stile e d’autore, ma assolutamente coerente con una visione stilistica e autoriale.  M.Night Shyamalan è tornato: e vive tutto nel rettangolo dello schermo.

 

Split

(id, 2016)  regia e sceneggiatura: M. Night Shyamalan – fotografia: Mike Gioulakis – montaggio: Luke Franco Cuiarrocchi – musiche: West Dylan Thordson – interpreti: James McAvoy (Kevin Wendell Crumb), Anya Taylor-Joy (Casey Cook), Betty Buckley (Karen Fletcher), Jessica Sula (Marcia), Brad William Henke (zio John) – produzione: Blumhouse-Blinding Edge – distribuzione: Universal – durata: un’ora e 56 minuti

 

 

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