Festival di Cannes 2014: Da Ceylan a Tommy Lee Jones, il meglio di Cannes 2014

di Renato Venturelli.
La Palma d’oro è andata a uno dei favoriti della vigilia, il turco Nuri Bilge Ceylan che con David Cronenberg e Olivier Assayas era tra i grandi nomi del concorso in attesa della prima vittoria a Cannes.

La cronaca di una Palma annunciata non deve però dare l’idea di un festival piatto e prevedibile, perché al contrario Cannes 2014 è stato ricco di buoni film, anche se nell’ambito di una formula attentamente costruita sul filo dell’equilibrio: da una parte i vecchi maestri che garantiscono sempre film di qualità (Mike Leigh, Ken Loach ecc.), dall’altra qualche giovane che dia la sensazione di uno slancio innovatore (Xavier Dolan, Lisandro Alonso al Certain Regard, il discusso premio ad Alice Rohrwacher), in mezzo nomi consolidati di sicuro affidamento. Un festival saggio e attentamente costruito, insomma.
Dei premi si può ovviamente discutere a lungo. “Winter Sleep” è un film che ben esemplifica la maturazione di Ceylan, ma al tempo stesso non ha la forza, la plasticità d’immagine, l’ampio e profondo respiro che aveva il precedente “C’era una volta in Anatolia”. E al pubblico che lo vedrà in sala va ricordato che si tratta di tre ore e venti fittamente anche se magistralmente dialogati.
Ineccepibile il premio al grandioso Timothy Spall di “Mr.Turner” di Mike Leigh, che aveva come principale avversario il sorprendente Steve Carrell di “Foxcatcher”. In entrambi i casi, però, si tratta di esibizioni d’attore molto virtuosistiche e tradizionali, mentre qualcosa di diverso e di più teso c’era sul versante femminile nella Marion Cotillard di “Deux jours, une nuit” dei Dardenne, cui è stata preferita la Julianne Moore del cronenberghiano “Maps to the Stars”, ovviamente poco compreso nei commenti dalla Croisette.
Molto più controversi, invece, i premi a “Le meraviglie” di Alice Rohrwacher, il maldestro ex-aequo a Dolan e Godard, il riconoscimento per la miglior regia al Bennett Miller di “Foxcatcher”, che compie un lavoro di egregia e sottile professionalità, ma al quale nel contesto di un festival molti avrebbero preferito un regista dalla più esplicita cifra autoriale.
Al di là dei commenti al palmarès dal retrogusto sempre un po’ inutile e salottiero, ecco comunque i film che più ci sembrano aver segnato questo festival:
The Homesman di Tommy Lee Jones per la sua splendida e amarissima classicità.
Deux jours, une nuit dei Dardenne, sempre più essenziali, prosciugati ed efficaci.
Mommy di Xavier Dolan per il continuo e appassionato estro inventivo.
Still the Water di Naomi Kawase per il modo in cui sviluppa in modo sempre più sottile il rapporto tra i personaggi e la natura, la morte e la vita.
La Chambre bleue di Mathieu Amalric per il personalissimo lavoro di scomposizione e ricomposizione del linguaggio classico, a partire da un romanzo di Simenon.
Cold in July di Jim Mickle per il modo in cui conferma la continua vitalità dei generi.
Maps to the Stars di David Cronenberg per il suo gioco sempre cerebrale, ostico, mai banale, anche se scambiato da molti per un semplice film su Hollywood.
P’tit Quintin perché Bruno Dumont riesce a sorprenderci, trasferendo il suo mondo nell’ambito di una serie tv reinventata in modo folle e stravagante.
Non siamo riusciti a vedere le quasi tre ore di “National Gallery” di Frederick Wiseman, ma vanno almeno citati anche “Foxcatcher” di Bennett Miller, la personalissima variazione su “La prisonnière du désert” dell’argentino Lisandro Alonso in “Jauja”, “Timbuctu” di Abderrhamane Sissako (un villaggio africano finito nelle mani dei fondamentalisti), il tradizionalissimo ma intenso “Mr.Turner” di Leigh, il film d’animazione “Kaguya” di Isao Takahata (Studio Ghibli). E ce ne sarebbero anche tanti altri: ma intanto vediamo quanti e soprattutto quali tipi di film verrà distribuito in Italia.
(Renato Venturelli)

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