Maps of the stars di David Cronenberg


di Aldo Viganò.
Fascinoso, insopportabile David Cronenberg. Se con History of Violence e La promessa dell’assassino il settantenne regista canadese aveva entusiasmato tutti gli appassionati di cinema, lasciando intravvedere che la classicità stilistica e la linearità narrativa potevano convivere con le urgenze della sua vocazione autoriale, con Maps to the Stars, come già in Cosmopolis, sembra però essere ritornato a quel cinema aspro e frammentato, cerebrale e fondamentalmente provocatorio a lui sempre caro sin dai tempi degli esordi nell’horror e, soprattutto, nella fase più dichiaratamente sperimentale che ha contraddistinto tutta la sua filmografia negli anni Novanta: da Il pasto nudo a Spider, passando per Crash ed EXistenZ. Un cinema, quello di Cronenberg, difficile da amare a causa della sua programmatica freddezza, forse anche irritante per l’esibita impossibilità di cogliervi un preciso centro narrativo. Comunque sempre, ed esplicitamente, un cinema d’autore, che non va certo verso il pubblico per rassicurarlo o per confortarlo nelle sue certezze, ma chiede in forma perentoria che sia invece lui, lo spettatore, ad andare verso il film, costringendolo a interrogarsi sul suo senso e sul significato di un discorso fatto d’immagini evidentemente ben calibrate, ma non per questo meno ellittiche. Un cinema che porta sempre in sé un mistero insolubile, per confrontarsi con il quale lo spettatore si trova obbligato a farsi parte attiva: pena il rischio di non capire più nulla di quello che si sta svolgendo sullo schermo che lo tiene prigioniero.
E questo mistero si ripete puntualmente anche in Maps to the Stars. Che cosa racconta veramente il film? Cosa si cela all’interno di quelle sequenze messe in scena al fine, sembra, di creare uno squilibrio tra l’essere e l’apparire, tra il tempo e la durata? Nella fretta di giungere comunque a una definizione, la maggior parte di coloro che hanno visto il film a Cannes hanno posto l’accento sull’apparenza offerta dalla sua ambientazione californiana e hanno raccontato Maps to the Stars come se si trattasse di un impietoso ritratto di Hollywood e del suo cinema. Ma è evidente che non è proprio questo il discorso che interessa a Cronenberg. Troppe cose, infatti, sfuggono a questa gabbia interpretativa. Sia sul piano visivo, sia su quello narrativo. C’è ben poco di realistico in quelle case di vetro, nelle quali i personaggi si aggirano come in un film di fantascienza. E l’ossessione dell’incendio doloso che ricorre puntualmente nel film, accomunando la diva Havana Segrand (Julianne Moore) e la sua assistente Agatha Weiss (Mia Wasikowska), sembra provenire più dall’inconscio dei personaggi che dall’ambiente sociale in cui questi si trovano a vivere. E che dire poi del suicidio finale consumato dai due giovani figli (la Wasikowska ed Evan Bird) di genitori inconsapevolmente incestuosi (John Cusack e Olivia Williams) o di quell’autista di limousine (Robert Pattinson) che sembra uscire direttamente dai fotogrammi di Cosmopolis? No, Hollywood c’entrano davvero ben poco con l’essenza di quest’ultimo film di Cronenberg; o almeno hanno la stessa funzione che avevano i videogiochi in EXistenZ o le automobili da corsa in Crash. Sono solo un “Mac Guffin” avrebbe detto Hitchcock: un pretesto narrativo per suscitare l’attenzione e far andare avanti il racconto. Ma l’interesse di Cronenberg sta evidentemente altrove. Un “altrove” nel quale la luce (la limpidezza stilistica del film) e il buio (le ossessioni che provengono dall’inconscio del suo autore) tendono a convivere senza mai fondersi completamente; creando perciò sequenze, situazioni e soluzioni narrative ora illuminanti e ora oscure, insieme affascinanti e insopportabili. Come lo sono sempre nell’arte, e nel cinema in particolare, quelle opere che nascono dall’impossibilità di risolvere la dicotomia tra intelletto e corpo, tra legge naturale e valori etici, tra individuo e società… e soprattutto, con evidenza in Cronenberg, tra la libertà creativa dell’artista e i tormenti di un autore che, dopo la parentesi del viaggio nella classicità, sembra ancora una volta ribadire che non l’arte che pur egli pratica con grande talento, ma solo la tecnologia e il pensiero sono in grado di spiegare tutto il reale (anche la stessa libertà dell’arte), finendo col far precipitare la sua opera in un “corto circuito” cerebrale nel quale il primo a rimanere imprigionato è il regista stesso, che nella rappresentazione di questo “loop” insieme si esalta e si perde.

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