Il mago dei suoni

di Francesca Felletti.
Stefano Grosso ha appena vinto a Venezia con Sacro Gra. E ci spiega il suo lavoro di sound editor.

Leone e Marc’Aurelio d’oro a Stefano Grosso. I premi principali delle ultime edizioni della Mostra di Venezia e del Festival di Roma hanno in comune la firma del montatore del suono genovese che ha lavorato sia a Sacro Gra di Gianfranco Rosi sia a Tir di Alberto Fasulo. Senza contare il premio del pubblico della Settimana della critica a Zoran di Matteo Oleotto e il premio Bresson a Ana Arabia di Amos Gitai sempre all’ultima Mostra di Venezia; e a Roma il riconoscimento per il migliore documentario italiano a Dal profondo di Valentina Pedicini. Tutti titoli a cui Grosso ha lavorato, dimostrando, oltre all’indubbia maestria tecnica, di possedere gusto e sensibilità cinematografica.
Oggi 44enne, Grosso inizia da ragazzo a suonare il basso elettrico, poi apre uno studio di registrazione nel capoluogo ligure, per trasferirsi infine a Roma e dedicarsi al sound editing dei film. Nel suo curriculum, in una decina di anni di carriera, ci sono un centinaio di film, fra cui: Tickets di Ermanno Olmi, Abbas Kiarostami e Ken Loach; La guerra di Mario di Antonio Capuano; Mare Nero di Roberta Torre; Vogliamo anche le rose di Alina Marazzi; Lo spazio bianco di Francesca Comencini. Alcuni sono ambientati nella sua Genova come Rosso come il cielo di Cristiano Bortone e Diaz di Daniele Vicari. E diversi altri sono israeliani: oltre al già citato Gitai, Farewell Baghdad di Nissim Dayan e A Place in Heaven di Yossi Madmoni.

“È un caso che abbia lavorato in tanti film israeliani – spiega Stefano – ho un amico e collega polacco, Alex Claude, non ebreo che vive per un insieme di circostanze a Tel Aviv, lui mi ha coinvolto in diversi titoli”.

Ma a che punto della lavorazione di un film entra in gioco il montatore del suono?
Il mio lavoro inizia alla fine del film, dopo il montaggio di scena, e consiste nel creare un impianto sonoro, un ritmo che si sposi con quello delle immagini. Attraverso i suoni, le voci, gli ambienti, la musica si possono raccontare storie diverse. Aggiungendo il rumore del vento, per esempio, si può creare una sfumatura nuova. A questo segue il missaggio, che consiste nell’equalizzare, comprimere, pulire, e altre operazioni molto tecniche. Io se mi occupo del montaggio preferisco non seguire anche il missaggio perché è difficile seguire sia il dettaglio, sia l’insieme.

Quanto è diverso lavorare sul suono di un film di fiction o di un documentario?
In realtà, per la mia esperienza, la differenza la fa il regista, con le sue direttive, preferenze, idee e con il tipo di rapporto che si instaura con lui. Quando ci si capisce davvero a livello professionale e umano, nasce un’alchimia che rende il mio lavoro di grande soddisfazione. Ho avuto la fortuna di lavorare con dei maestri ma mi è piaciuto anche sentire le opinioni di registi ventenni: credo di avere imparato da tutti! La differenza sta invece nei film d’animazione: lì devi inventare tutto l’impianto sonoro. Quest’anno ho lavorato a L’arte della felicità di Alessandro Rak, il cartoon per adulti che era alla Settimana della critica dell’ultima Mostra di Venezia, ed è stata un’esperienza bellissima.

Su cosa stai lavorando adesso?
In questo momento, mentre siamo al telefono, ho davanti le immagini di Oro verde di Mohammed Soudani, un regista algerino naturalizzato svizzero. È una commedia che prende spunto da un fatto realmente accaduto, ovvero la confisca in Ticino di un grande quantitativo di canapa.

Ti senti anche tu vincitore del Leone, del Marc’Aurelio e di tutti gli altri premi?
I veri vincitori sono i registi, con le loro idee e la loro ispirazione e anche con il loro calcolo (come del caso di un film a cui ho collaborato che era stato rifiutato a Cannes e accettato a Locarno, ma l’autore ha preferito provare a un terzo un festival più importante, vincendolo!). Ma un pochino sì, mi sento vincitore anche io. Ma la cosa di cui sono più fiero è quella di fare un lavoro che mi piace tantissimo e a cui mi appassiono di volta in volta. Mi è capitato di lavorare a film di cui mi sono innamorato dopo avere visto le prime immagini. Magari erano progetti difficili, con pochissimo budget, ma i successi che hanno avuto, come nel caso dell’intenso documentario Dal profondo girato sottoterra insieme ai minatori della miniera Carbosulcis, mi hanno ripagato di tutto. Mi capita spesso, nell’ambito dei documentari, di trovare persone che lavorano sodo con poco guadagno perché credono in un progetto e trovo una grande poesia in questo.

Ti manca Genova?
Mi manca al punto che faccio fatica a lavorare sulle immagini dei film girati a Genova. Mi manca il mare e tutto il resto. Ma la mia famiglia è lì e ho ancora tanti amici, quindi appena posso – e il tempo è sempre tiranno – ci vado. Non che mi senta vecchio ma ho tanti impegni di lavoro e trovo una grande verità nella massima: “Se i giovani sapessero, se i vecchi potessero”.

Postato in Numero 100, Sonoro.

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