TOMBOLO, PARADISO NERO (1947)

Ultimo appuntamento con “Giovane canaglia”, la rassegna della Cineteca D. W. Griffith sul noir italiano. Tombolo, paradiso nero (G. Ferroni, 1947) e La pantera nera (D. Gambino, 1942) sono stati i film proposti al pubblico del cinema America.
Ispiratosi a un’inchiesta di Indro Montanelli, il primo titolo vede come protagonista Andrea Rascelli (Aldo Fabrizi), un guardiano di un magazzino che ritrova la figlia scomparsa da cinque anni.
All’eroe viene fatto credere che la ragazza conduca una vita tranquilla, regolare e che sia in procinto di sposarsi. Tutto ciò è però un inganno, in quanto la figlia è in realtà una prostituta sfruttata da un malvivente, il quale cercherà di far accusare Andrea di un furto che non ha commesso e di cui è indirettamente vittima.
Anche se probabilmente non è pienamente ascrivibile alla corrente neorealista, la pellicola ne risente i richiami e le tematiche. Infatti, il contesto storico e sociale appare piuttosto delineato: il trauma di una guerra finita da pochi anni, il mercato nero, le difficoltà economiche e la presenza di ex soldati statunitensi non solo fanno da sfondo alla vicenda narrata, ma in certi casi ne sono persino il motore (ad esempio, la figlia è scomparsa proprio negli anni del conflitto).
Contesto sociale a parte, il film è un mix di noir e melodramma, in cui la vicenda criminale e poliziesca s’intreccia e fa da collante a due storie d’amore e al tema del rapporto tra padre e figlia, con i suoi commoventi esiti drammatici.
Aldo Fabrizi dimostra ancora una volta di essere un ottimo attore, interpretando con intensità il ruolo di un uomo ancora scioccato dalla guerra e condotto da un amore paterno incondizionato che lo porterà a una sorta di sacrificio finale.
Ma il maggiore motivo d’interesse del film è la seconda parte, in quanto viene ambientata soprattutto nei pressi della pineta del Tombolo, zona in cui risiedevano prostitute, criminali e disertori.
Anche se la zona esiste e nell’opera viene descritta in maniera realista, il risultato è complessivamente straniante e a tratti quasi “irreale”. Questo è probabilmente dovuto alla narrazione, la quale passa improvvisamente da un ambiente prevalentemente urbano a un paesaggio un poco esotico e comunque completamente diverso, composto da tende, capanne, barche e locali con strane statue. Ed è forse tale imprevisto passaggio a generare uno scarto che rende misteriosa e affascinante l’ambientazione.
Effetto probabilmente non voluto, ma comunque presente e positivo, in quanto trasmette al film un’atmosfera che sta tra il realismo e il sognante, rendendo il tutto piuttosto curioso e coinvolgente.

La pantera nera è, invece, un giallo in cui un commissario di polizia indaga sulla morte di un suo collega avvenuta in un locale notturno. Il protagonista scoprirà infine che alla base del delitto c’è un complotto spionistico di una banda criminale ai danni di uno scienziato e di sua figlia.
In questo caso, la storia – di per sé non particolarmente interessante – risulta secondaria rispetto ad altri elementi narrativi, in primis situazioni e personaggi, i quali donano all’opera
toni più tipici della commedia che del noir.
Infatti, certe scene cominciano con un apparente intento di suspense, per poi concludersi in modo ironico (si pensi alla sequenza dello smascheramento del finto scienziato), mentre altre – il finale soprattutto – sembrano provenire più da commedie sentimentali e sofisticate che da gialli e polizieschi.
I personaggi sono un altro motivo “comico” della pellicola: si pensi al già citato falso scienziato, all’aiutante della spia (figura più interessata alla propria alimentazione che agli intrighi da svelare) e, soprattutto, al protagonista.
Quest’ultimo è un detective piuttosto particolare, sia perché nonostante l’età non giovanissima è alla sua prima e forse unica indagine (nel film si dice spesso che ha passato la sua carriera tra scartoffie da esaminare), sia per suoi modi educati, gentili, timidi e, talvolta, persino paurosi.
Tali elementi, uniti alla buona prova di Lauro Gazzolo, contribuiscono a rendere buffo e simpatico il personaggio, creando così un certo rapporto empatico con lo spettatore.
Piccola curiosità: la trama si svolge a prevalentemente a Budapest, caratteristica tipica dei cosiddetti “telefoni bianchi”, realizzati – come questo film – durante il fascismo.

Così, dopo quasi due mesi di programmazione, si è conclusa la rassegna “Giovane canaglia”, che tra marzo e aprile ha avuto il merito di proiettare pellicole dalla qualità magari alterna, ma quasi sempre rare, talvolta introvabili e anche per questo interessanti.

(di Juri Saitta)

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