Intervista a Gianni Amelio


Il primo uomo è stato uno dei cinque film selezionati dalla IX edizione del Laura Film Festival per il ciclo  dedicato alla Rassegna italiana. Abbiamo incontrato Gianni Amelio, il regista del film, nel salotto di casa Morandini a Levanto, il giorno della proiezione. Dal momento che eravamo a conoscenza della sua passione per il cineromanzo, abbiamo pensato di portarne uno e fargliene omaggio: un cineromanzo del 1962, La storia di Ester Costello. Le probabilità che facesse già parte della sua collezione erano alte. E invece:

Oh Dio! Mi manca, mi manca, mi manca! Se è una collezionista anche lei posso portarle dei doppioni. Ha saputo della mostra che ho fatto? Con il libro pubblicato dal museo del cinema di Torino, Lo schermo di carta? Una mostra bellissima e anche il libro è molto bello.

Quindi possiamo iniziare dalla sua passione per il cineromanzo.

E’ un fatto molto semplice: sono nato a San Pietro Magisano, nel centro della Calabria e ci sono rimasto per 12 anni, un paese di 600 abitanti che non aveva un cinema, la sala più vicina era a Catanzaro. Non potendo andare al cinema, vedevo il surrogato del cinema. Per me il miracolo era poter conservare il film insieme ai miei libri. Sognavo che un giorno ci sarebbe stato il modo di tenere a casa un vero film, come si tiene un testo prezioso di Leopardi o l’Odissea. Il mio sogno si è avverato: oggi in casa abbiamo i dvd, ma io non li guardo. Secondo me il cinema va visto in sala. Uso fare un paragone che forse è grossolano ma lo faccio ugualmente: uno spettatore che invece di andare al cinema si vede un dvd a casa, è come un cattolico che la domenica invece di andare in chiesa, ascolta la messa in televisione. Non è la stessa cosa! Non c’è la stessa concentrazione, lo stesso impegno. Quando si decide di andare la cinema si compie un gesto quasi religioso: si esce di casa e si va nel luogo dove il mistero del cinema viene svelato, dove il rito viene celebrato. Quando ero ragazzo sentivo veramente questa magia, questa religiosità. Un film va visto nella sua interezza, senza distrazioni o interruzioni, va visto dall’inizio alla fine anche se non piace, perché solo così è possibile valutarlo pienamente. E poi i film visti in dvd secondo me non si ricordano, entra in funzione un retro pensiero: me lo posso rivedere quando voglio. Per non parlare di quanto sia frustrante per un regista:  mi è capitato di entrare in sala mentre proiettavano un mio film, poteva essere piena oppure con poca gente ma ogni volta la cosa illuminata nel buio era l’immagine che io avevo creato, mentre per chi guarda il dvd l’immagine diventa soltanto una distrazione tra tante. Tra il cinema e il dvd c’è la stessa differenza che passa tra i biscotti fatti in casa e quelli comprati al supermercato. So che non si può tornare indietro, la sala entrerà in crisi sempre di più, però dovremmo cercare di trattenere questo piacere, di non lasciarlo andare, noi che amiamo il cinema in modo particolare. Invece, per tornare al cineromanzo, direi che lo si comprava per potersi portare a casa il film, non era come leggere un fotoromanzo, i lettori del cineromanzo erano diversi, erano i cinefili di allora. Io potevo acquistarli perché trattenevo una parte dei soldi che la nonna mi dava per la spesa. Se lei ha visto Il primo uomo ricorderà il bambino, che poi sarebbe Camus, mandato dalla nonna a comprare mezzo chilo di carne, lui ne compra 400 grammi e tiene il resto per prendersi un giornaletto. Quella non è una storia accaduta a Camus ma a me, con la differenza che io non ho mai confessato a mia nonna di aver perduto i soldi come fa il ragazzino del film, confessando una mezza verità. Io avevo lasciato credere che il macellaio mi avesse imbrogliato. E mia nonna, che era diversa da quella che ha visto sullo schermo, ha sempre dato ragione a me: ”Il macellaio è un mascalzone perché si è approfittato di un bambino”. E invece avevo comprato un cineromanzo. Per anni sono vissuto con questo senso di colpa.

Può parlare del suo film e del manoscritto di Camus?

Nel ’62 finiva la guerra d’Algeria e Camus era già morto da due anni. E’ morto nel gennaio del ’60 in un incidente di macchina, non aveva neppure cinquant’anni e il manoscritto de Il primo uomo è stato trovato nella vettura. Io ho avuto l’emozione indicibile di poterlo tenere tra le mani perché la figlia di Camus, che lo ha decifrato, mi ha permesso di farlo. E’ stata lei a trascrivere il romanzo, ha impiegato molti anni prima di riuscire ad entrare nel mondo di suo padre, la grafia di Camus era minuta, quasi al limite della invisibilità, come se volesse scrivere in modo comprensibile solo a lui stesso. Ha pubblicato il romanzo nel ’94, integralmente, con tutti i piccoli errori che conteneva, come lo scambio di nomi, nel senso che a volte per lo stesso personaggio usa nomi diversi. Camus scriveva di getto e poi, per questo libro, non sapeva ancora quale strada prendere. Ci sono molti rifacimenti, c’è un terzo capitolo scritto due volte, entrambe le versioni sono meravigliose ma completamente diverse. Inoltre nell’ultima parte inizia a strutturare il libro in un altro modo, non come lo aveva pensato inizialmente e quindi, se avesse potuto rivederlo, gli avrebbe sicuramente dato un’altra forma. Tutta questa confusione mi ha consentito una certa libertà, anche se io ho sempre considerato il manoscritto un libro compiuto, non l’ho mai sentito come non finito anzi, penso che per un libro autobiografico il disordine e i rifacimenti siano inevitabili, che inevitabilmente accompagnino il flusso dei nostri pensieri quando cerchiamo di rintracciare il passato. Se pensiamo a ciò che eravamo trent’anni fa, non tutto è ordinato nella mente e non deve esserlo. I ricordi ci arrivano da dentro e sono filtrati da esperienze successive, da ciò che siamo diventati. Quindi, per un’autobiografia, la forma giusta è data dall’incompiutezza e dal disordine. E per complicare ulteriormente le cose, ho fatto un’operazione poco ortodossa: ho unito la sua biografia alla mia e ho parlato di me, soprattutto del rapporto con mia madre.

E la figlia di Camus cosa ne ha pensato?

La figlia ha adorato il film perché, proprio in questa mia intromissione personale all’interno della vita del padre, ha visto una partecipazione profonda alla loro storia. Si aspettava una sorta di rispettosa illustrazione del manoscritto, una trascrizione fatta con la deferenza che si ha difronte ad un grande libro e  ad un grande autore. Io invece ho avuto la sfrontatezza ma insieme il coraggio, la volontà, la forza e l’umiltà di entrare fisicamente nella storia, e questo le ha reso suo padre più vicino e più vero. Conosce il libro a memoria e quindi sa che nel film non c’è una battuta della madre che appartenga a sua nonna, alla madre di Camus, tranne una che mia madre non avrebbe potuto pronunciare, quando dice: ”La Francia è bella ma non ci sono gli arabi”. Quasi tutto il resto appartiene a mia madre. Una delle frasi per me più importanti viene detta verso la fine del film: lui torna dopo aver visto l’attentato ed è sconvolto, si siede a tavola mentre la madre sta cucendo, come cuciva mia madre, e le dice: “Quando ero piccolo mi dicevi: vattene da qua perché altrimenti non fai le cose che vuoi fare” e aggiunge: “tutto quello che di buono ho fatto nella vita è a te che lo devo”. Lei risponde: ”Figlio mio, se sei contento, a me sta bene”. Era un modo molto fatalistico di vedere la vita, come se le cose fatte non dipendessero da lei ma dal destino che le aveva forgiate in quel modo. Ho anche inserito un dialogo che ho sempre cercato di raccontare ma non avevo ancora trovato il modo giusto per farlo, qualcosa che non ho mai dimenticato. Nel nostro piccolo paese tutti vivevano nello stesso modo, tranne l’arciprete, il maestro di scuola e il podestà – in realtà il fascismo era finito ma continuavano a chiamarlo così, forse perché lo era stato – io sentivo sempre parlare di povertà, un giorno chiesi a mia madre chi fossero questi poveri di cui tanto si parlava e lei rispose: “I poveri siamo noi!” E il mio commento pieno di sollievo fu: “Allora va bene”. Perché quindi tutta quella tristezza quando si parlava di povertà? noi stavamo bene! La vita in un piccolo paese della Calabria nel dopoguerra non dava la percezione della disuguaglianza sociale, erano tutti braccianti o emigrati, nessuno spiccava per disperazione. Vivevamo di lattuga e cicoria, era naturale che non vedessi la povertà. Il problema era farlo dire a Camus. Forse nella sua Algeria le cose erano diverse, però erano gli anni venti ed era quindi possibile che la percezione della disuguaglianza non ci fosse ancora.

Il bambino del film cerca la madre.

Eravamo molto poveri. Mia madre si chiamava Audina Amelio, sposò mio padre Giuseppe Amelio a 15 anni, quando sono nato ne aveva 16 e mio padre 18. L’anno successivo nacque mia sorella e pochi mesi dopo mio padre partì per l’Argentina alla ricerca di suo padre che aveva abbandonato la famiglia. Lasciò me, mia madre, mia sorella e la propria madre che aveva altri tre figli. Mia sorella morì di stenti quando aveva due anni e mezzo. Lui tornò quattordici anni dopo. Ebbe un altro figlio da mia madre, mio fratello, e la mia famiglia tornò ad essere una famiglia ma io non ne ho mai fatto parte. Per mio padre ero un estraneo, lui aveva la terza elementare e io ero uno che studiava. Non mi volle mai con sé. E’ stata mia nonna a prendersi cura di me, sono cresciuto con lei. Mia madre è morta giovanissima, aveva 38 anni, non volle che fossi informato della sua malattia perché sapeva che avrei lasciato tutto per starle vicino e non voleva che il mio lavoro potesse risentirne. Sì, ho cercato mia madre. Camus cercava il padre. Lo cerca fin dalla prima scena, vuole scrivere un libro sul padre e poi invece un giorno dice alla madre: “Che ne dici se scrivo un libro su di te” e lei: “Io non so leggere”. Mia madre invece sapeva leggere e un giorno lesse una critica ferocissima sul mio lavoro in un giornale che riportava anche una mia foto. Lei piegò il foglio, lo mise in una busta, me lo spedì e mi disse: “Io non ci credo alle cose che scrivono, però la foto è bella”.

Antonella Pina

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