Alla terza edizione della rassegna Stracult alla Spezia, organizzata dal cinema Il Nuovo e dedicata quest’anno agli anni ’70, abbiamo incontrato Ivan Cotroneo venuto a presentare il suo primo film, La kryptonite nella borsa. La kryptonite viene dal pianeta Krypton ed è una sostanza molto pericolosa, soprattutto quella verde. E’ la sola cosa temuta da Superman.
Prima di girare questo film sei stato uno sceneggiatore, rappresenti quindi uno di quei casi fortunati e rari in cui uno sceneggiatore ha la possibilità di dirigere il proprio film. Il tuo poi è un caso rarissimo perché sei anche l’autore del libro da cui il film è tratto. Immagino sia stata un’esperienza molto bella.
Sì, un’esperienza bellissima. Ho fatto lo sceneggiatore per anni, anche se il mio primo lavoro, terminati gli studi di sceneggiatura al Centro Sperimentale di Cinematografia, è stato quello di assistente alla regia. Erano i primi film di Papi Corsicato, Libera e Buchi Neri. Poi ho iniziato a scrivere sceneggiature, ma ho sempre avuto la passione per il set. Ero molto contento quando scrivevo per registi che mi coinvolgevano nel loro lavoro, pensando che lo sceneggiatore potesse essere utile anche sul set. Mi è capitato con Milani, con Maria Sole Tognazzi, con Ozpetek. Mine Vaganti è stata l’ultima grande avventura che ho affrontato come sceneggiatore prima di dedicarmi al mio film. Mi piace pensare che continuerò a scrivere sceneggiature, ma non vedo l’ora di tornare sul set. L’opportunità di girare questo film mi è stata data dai produttori Francesca Cima e Nicola Giuliano.
Avevano letto il mio libro e pensavano che ci fosse del buon materiale per un film ma non sapevano quale regista chiamare. Nel frattempo mi avevano coinvolto come sceneggiatore. Durante le riunioni, anziché limitarmi a discutere con loro l’aspetto narrativo, facevo mille osservazioni sugli anni ’70: la musica, i colori, i vestiti. Parlavo di dettagli apparentemente insignificanti come i pantaloni con l’orlo di un colore diverso, meno sbiadito, perché venivano allungati continuamente. Si cresceva in fretta e poi si passavano da un cugino all’altro. Così un giorno mi hanno detto: non troveremo mai un regista attento a tutto questo, perché il film non lo dirigi tu? Il fatto che fosse un mio romanzo poteva essere una forza: racconto una storia parzialmente autobiografica, racconto la Napoli degli anni ’70 che ho vissuto. Ma poteva anche essere una debolezza: l’entusiasmo può renderti cieco. Io non sono un fan del cinema ombelicale, quando racconto una storia mi chiedo sempre se sia sufficientemente interessante per gli altri. Ho accettato, ma ho chiesto l’aiuto di due sceneggiatrici che conoscevo e stimavo, due donne non napoletane, non coinvolte nella storia: Monica Rametta con cui avevo scritto Tutti pazzi per amore e Ludovica Rampoldi di cui avevo letto cose che mi piacevano.
Com’è lavorare con un attore che deve interpretare un personaggio a cui tu hai già dato vita? Lo scrittore teme il lavoro dell’attore?
No, io sono un fan del lavoro degli attori. Nonostante il film abbia avuto una lunga preparazione e le scene siano state provate molte volte, quando gli attori le facevano mentre la macchina da presa girava, accadeva una sorta di magia. Pur tenendo conto delle prove, ciò che si concretizzava era qualcosa di diverso, magari una luce che passa nello sguardo, piccole cose, ma irripetibili. Forse il mio entusiasmo per il loro lavoro dipende dal fatto che prima di essere uno scrittore sono uno sceneggiatore e quando qualcuno mette in scena una cosa che ho scritto, mi aspetto un cambiamento, un’emozione diversa che non trovo sulla carta. Quel qualcosa di imponderabile che accade sul set non lo temevo da sceneggiatore e non l’ho temuto da scrittore. Anzi, è una delle ragioni per cui desidero tornare sul set.
Napoli nel tuo film sembra un luogo bello in cui vivere. E’ ancora così?
Ho trascorso l’infanzia a Napoli con i miei giovani zii, come Peppino, il personaggio del film, è così che ho conosciuto gli anni ’70. Avevo un bel rapporto con la città. Poi crescendo il rapporto si è fatto conflittuale e negli anni ’90 sono andato a Roma per studiare sceneggiatura. Quando sono tornato, prima per scrivere il libro e poi per girare il film, mi sono riconciliato con la città. E’ bellissima e soffro per come la cronaca la ritrae. Il mio film è un atto d’amore compensativo, non perché pensi che le altre visioni siano false, ma non sono le sole possibili. Napoli è una città molto complessa. Certo, quella del film è una Napoli sognata, vista attraverso gli occhi di un bambino, attraverso la distanza del tempo, però è ancora possibile guardarla in questo modo.
La musica ha un ruolo importante nel tuo film. Pensi anche tu come Truffaut che “le canzoni dicono la verità. E più sono stupide più sono vere?”
Sì. Assolutamente sì. Ascolto molta musica e capita spesso che un mio sentimento, di allegria, di tristezza o di disperazione, lo ritrovi raccontato dalle parole di una canzone. Quando la protagonista del film scopre di essere stata tradita dal marito, ho messo come colonna sonora del suo dolore una canzone di Mina non molto conosciuta, Quando ero piccola, perché il testo racconta meglio di qualunque dialogo ciò che lei prova in quel momento.
Il messaggio del tuo film è: scopri chi sei e vivi la tua vita, al di là del buon senso e del pregiudizio. Non temere la tua “diversità”, né il giudizio degli altri. Non temere nulla se non la kryptonite.
Sì, proprio così.
Hai un progetto per il futuro?
Tornerò sul set con una storia nuova a cui sto pensando, un mio soggetto. I produttori saranno gli stessi e sarà un film sulla contemporaneità.
(di Antonella Pina)