Registi inglesi, danesi, coreani, iraniani, giapponesi… Arriva dal primo di febbraio Febbre Gialla, la rassegna del Club Amici del Cinema che ogni anno riflette sullo stato di poliziesco, noir & dintorni. E stavolta il consueto predominio del cinema americano sembra ormai cancellato. Il noir è diventato definitivamente una questione globalizzata, la patria di Hammett e Chandler, di Humphrey Bogart e dell’ispettore Callaghan sembra ormai aver ceduto il passo a registi e sceneggiatori che in tutto il resto del pianeta usano gli schemi del poliziesco per raccontare altri mondi, sperimentare nuovi linguaggi, battere piste sempre più diverse.
Anche il regista del più importante noir americano dell’annata, Drive, è del resto un danese: Nicolas W. Refn, che non a caso ha sviluppato altrove tutta la sua prima parte della carriera, era stato celebrato con una retrospettiva al festival di Torino di qualche anno fa, e insomma era già ben conosciuto dal pubblico di tutto il mondo per la sua attività in Danimarca. L’americano Drive si presenta peraltro come il miglior film della sua carriera, e costituisce il titolo-simbolo della stagione noir, anche per i suoi rimandi a uno dei classici di fine anni ’70, quel Driver di Walter Hill che non solo era uno splendido film ma è anche uno degli ultimi esempi del grande cinema di genere americano sciaguratamente spazzato via a partire dagli anni ’80.
Accanto a Refn e a Drive, l’altra tendenza da citare per il 2011 è la persistente attenzione al noir da parte del cinema inglese, che ama sempre più mescolare gli ingredienti classici con umorismo nero, dialoghi compiaciuti, una violenza tanto esasperata quanto astrattamente teatrale. Il neo-noir britannico ha d’altronde una sua tradizione ben precisa, che affonda le radici in un film probabilmente sopravvalutato ma ormai mitico come Carter (1971, con Michael Caine), passa attraverso lo stile modaiolo “Lock & Stock” di Guy Ritchie ed arriva al giorno d’oggi, magari guardando anche a titoli recenti come In Bruges. Quest’anno si sono visti London Boulevard e Un poliziotto da happy hour, titolo demenziale per l’originale e più semplice The Guard.
London Boulevard è ambientato in Inghilterra, è diretto dall’americanissimo William Morahan (sceneggiatore di The Departed) e mette in mostra un Colin Farrell finalmente ottimo, affiancato dal grande Ray Winstone, oltre che da Keira Knightley e David Thewlis. La sua formula è basata su una mescolanza di dialoghi arzigogolati, umorismo nero, violenza fisica e verbale, così come accade nell’altro film, dove i criminali discutono di filosofia, i poliziotti di letteratura e i bassifondi odorano di quinte teatrali. Il giochetto finto-intellettuale di inserire riferimenti “alti” in situazioni violente da crime movie è abbastanza banale, ma il corpulento poliziotto irlandese di mezz’età di Un poliziotto da happy hour, razzista, ubriacone e puttaniere, è magnificamente interpretato da Brendan Gleeson, e il film si presenta come uno dei neo-noir più sottovalutati dell’anno.
Per il resto, tanto Oriente, nonostante la censura di mercato che impedisce alla maggior parte dei film asiatici di arrivare nelle nostre sale, e nonostante le abitudini del pubblico che li snobba. Dalla Corea del Sud è arrivato The Housemaid di Im Sang-soo, analisi feroce di una società classista raccontata attraverso un thriller dalle derive quasi grandguignolesche: protagonista, una povera camerierina che va a lavorare in una famiglia di ricchi, viene messa incinta dal padrone, e deve così subire la violenta persecuzione della moglie e della suocera. Dal Giappone, s’è visto invece Detective Dee e il mistero della fiamma fantasma di Tsui Hark, incrocio tra poliziesco e wu-xia-pian, ispirato a un personaggio storico del VII secolo già celebrato dal sinologo olandese Robert Van Gulik in una celebre serie di romanzi polizieschi: ed è probabile che Febbre Gialla riproponga Detective Dee accanto ad altri due film in costume diversamente action del cinema orientale recente, come 13 assassins di Takashi Miike e Il buono, il matto, il cattivo di Kim Ji-woon.
E non è finita, perché quest’anno abbiamo avuto addirittura un noir iraniano, The Hunter, con un tizio che scopre di aver perso moglie e figlia per colpa delle pallottole della polizia, e si trasforma così in un serial killer di sbirri. Il regista è in realtà un iraniano (Rafi Pitts) scappato in Inghilterra all’inizio degli anni ’80, uno che ha studiato cinema a Londra, ha poi lavorato con famosi registi francesi, e quindi ha una cultura molto occidentale: resta comunque il dato insolito, anche se non certo unico, di una variante del crime movie realizzata nel paese di Kiarostami e Makhmalbaf.
Il tutto in attesa di altri due film destinati ad essere inseriti nel programma: Millennium di David Fincher e La talpa di Tomas Alfredson, vale a dire il remake di un film e di un romanzo svedese realizzato da un americano, e di un romanzo inglese diretto da uno svedese. Decisamente, questo noir è sempre più global.