Dopo più di trent’anni di silenzio, finalmente il nome di Paolo Saglietto ha ricominciato a suscitare interesse. Regista imperiese che lavorò dall’immediato dopoguerra sino alla morte, sopraggiunta nel 1973 a soli 49 anni, ha girato ben trentaquattro cortometraggi e un solo lungometraggio. Mosso da una grande passione per il cinema, si era trasferito giovanissimo a Roma per frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia. Il giorno del diploma tra i commissari d’esame figurava Luchino Visconti, che, secondo un aneddoto, gli chiese da quale romanzo gli sarebbe piaciuto ricavare un film; ironia della sorte vuole che Saglietto abbia risposto “I Malavoglia” e che, nello stesso anno (1948), sia uscito La terra trema.
Saglietto fece del cortometraggio la sua essenziale forma d’espressione, affrontando i temi più disparati, ma tutti uniti dal medesimo stile, uno stile refrattario alla linearità, che inserisce in uno stesso film momenti di fiction, di documentarismo più tradizionale e di sperimentalismo audiovisivo. Caratterizza il tutto una costante attenzione al linguaggio, alla musica e alla composizione dell’inquadratura, campi in cui ha sperimentato senza riserve. Era un artista che amava le rotture di tono, i cambi improvvisi di registro, insomma, il rimescolamento delle carte.
I temi dei suoi film spaziano dalle arti figurative (Arte senza pace) alla letteratura (Il barbaro), dalla sociologia (Il vuoto) alla psicologia (REM), con un occhio particolarmente attratto dall’opera di artisti tormentati, minati nella psiche, sprofondati nell’inquietudine o stritolati dalla fede. Sono film che esplorano la caduta dell’uomo contemporaneo e la sua disperata ricerca di vie di fuga.
Questi film hanno partecipato a numerose rassegne e festival ottenendo prestigiosi riconoscimenti, come il premio Osella della Mostra del Cinema di Venezia o il Nastro d’Argento. Ci si chiede, dunque, come sia possibile che un artista tanto valente, circondato da eccellenti collaboratori (per citarne solo alcuni: Emilio Cigoli, Cesare Vico Ludovici, Franco Potenza) e vincitore di premi, sia stato dimenticato. È presto detto: fu colpa dei provvedimenti adottati dal regime fascista per incentivare il cinema e in seguito mantenuti, sia pur rivisti e corretti, sino agli anni Sessanta. Nell’Italia di quegli anni le leggi che regolamentavano il cinema documentario, invece di favorirne la produzione sul piano qualitativo, tenevano conto esclusivamente degli interessi economici e commerciali di produttori, esercenti e distributori; i cinematografi erano obbligati a proiettare un cortometraggio abbinato ad un film a soggetto, ma presto, non avendo alcun interesse specifico e non essendo controllati, smisero di farlo. Venne quindi girata una gran quantità di documentari al solo scopo di incrementarne la produzione, senza verificare se essi venissero poi effettivamente proiettati nelle sale. Tale situazione creò un pericoloso regime elitario che favorì solo le grosse case di produzione, tra le quali la Corona Cinematografica presso cui Saglietto lavorò.
Ma come finì Saglietto alla Corona? Probabilmente come molti altri registi che, in cerca della possibilità di lavorare e al tempo stesso di tener fede alle proprie convinzioni, approdavano a una casa di produzione che gli permettesse di soddisfare le proprie esigenze, nonostante la distribuzione limitata dei loro film.
Grazie all’interesse della famiglia del regista, nel 2010 è stato organizzato un incontro in sua memoria al DAMS d’Imperia, presso cui è stato tenuto, di recente, anche un corso monografico a lui dedicato; tutto ciò ha stimolato una serie di iniziative per il 2012, promosse dal Missing Film Festival in collaborazione con Cineamatori Genovesi e Club Amici del Cinema. Le sedi di questi incontri saranno la Sala Coop al Terminal Traghetti di Di Negro (16 febbraio, h. 21.15) e la Mediateca del Centro Civico Buranello di Sampierdarena (23 febbraio, h. 17.30).
(di Ilaria Orazzini)