All’inferno con Jim Thompson


Dimenticato in patria, riscoperto dai francesi, collaborò anche con Kubrick. E oggi viene celebrato in tutto il mondo.
Jim Thompson
Oggi è considerato un gigante della narrativa noir, ma solo trent’anni fa, per gli americani, Jim Thompson era quasi uno sconosciuto, un vecchio scrittore pulp che nessuno voleva ricordare. Il monumentale Twentieth Century Mystery Writers di Reilly non lo nominava nemmeno.
L’inglese Julian Symons lo definiva un efficace imitatore, indistinguibile dagli altri eredi dell’hardboiled. E anche in Italia non se lo filava praticamente nessuno, benché i suoi libri fossero uscito nei Gialli Mondadori. Gli unici a celebrarlo erano i soliti francesi, come era accaduto per David Goodis, Horace McCoy o Chester Himes: lo paragonavano a Céline, gli dedicavano numeri speciali di riviste (“Polar”, n.2, 1979), lo definivano “il più grande autore della Série Noire”.

Poi, Barry Gifford lo ha scoperto proprio nelle librerie della Parigi anni ‘80, la casa editrice Black Lizard ha cominciato a rieditarlo, Tavernier ha realizzato Colpo di spugna, Stephen Frears Relazioni pericolose.
E oggi tutti conoscono il grande ciclo noir di Jim Thompson, quello compreso tra l’inizio degli anni Cinquanta e la metà dei Sessanta, pubblicato in gran parte nei paperback della Lion, della Dell o della Gold Medal.
Nato in Oklahoma, cresciuto in Texas, figlio di un vice-sceriffo finito male, Jim Thompson (1906-77) si era formato alla durissima scuola della Grande Depressione. Abbandonata l’università, aveva scritto per anni su riviste true crime, raccontando storiacce realmente accadute e imparando a catturare il lettore con un linguaggio duro e sintetico. A partire dal 1936 aveva anche lavorato al rooseveltiano Federal Writers’ Project, si era iscritto al partito comunista, si era occupato di lavoratori, sindacalisti, vagabondi, militando in un’idea di scrittura fortemente impegnata. Finché comincia a scrivere romanzi criminali e polizieschi, centrando il suo periodo d’oro nei primi anni Cinquanta: quando pubblica un romanzo dopo l’altro, direttamente in paperback, si dice curando molto le prime sessanta pagine per ricevere l’anticipo e andando poi più in fretta nella seconda parte.

Da L’assassino che è in me (1952) a Uomo da niente (1954), da Getaway (1959) a Colpo di spugna (1964), i suoi romanzi adottano il punto di vista di uomini del sottosuolo lividi e vendicativi, ci trascinano nei meandri più torbidi della loro interiorità, incarnano la lucida follia di protagonisti che vedono il male del mondo e perversamente vi si immergono, quasi a voler far saltare tutto in aria. Diceva che esiste in pratica un unico tipo di storia: quella per cui le cose non sono quelle che sembrano. Ma aggiungeva anche di aver capito il mondo solo dopo aver letto Karl Marx.

Del resto, tutti i suoi libri sono fondamentalmente politici, e fanno a pezzi il Sogno Americano raccontandoci l’alienazione nel mondo contemporaneo, combinando Dostoevskij e il pulp, il realismo crudo con l’astrazione sperimentale, la violenza più brutale con un personalissimo espressionismo linguistico o con bruschi spostamenti del punto di vista del narratore.
Al cinema aveva cercato di avvicinarsi tante volte, senza fortuna. Finché Stanley Kubrick lo coinvolse nella sceneggiatura di Rapina a mano armata, anche se poi gli riconobbe soltanto il contributo ai dialoghi: e da allora Thompson, inferocito, passò il tempo a ripetere che “Kubrick preferiva rubare un centesimo che guadagnare un milione di dollari onestamente”. Ma siccome era disoccupato, malato, alcolista e in bolletta, fu ben felice di continuare a scrivere per Kubrick anche in Orizzonti di gloria.

Il suo contributo importante al cinema, però, finisce più o meno lì. Lavorò a qualche altra sceneggiatura, anche per Kubrick o per Welles, ma senza conseguenze concrete. Nel 1975, poco prima che morisse, Dick Richards lo fece recitare in Marlowe poliziotto privato, al fianco di Robert Mitchum.
Tutto il resto sono adattamenti dei suoi romanzi, per lo più post mortem. Per Getaway! fece anche una sceneggiatura iniziale, ma poi subentrarono Walter Hill e Sam Peckinpah: e il risultato è un gran bel film, ma che ha poco a che spartire con Thompson e stravolge la sua perfida ferocia in un beffardo lieto fine. Rischiose abitudini (1990) mantiene una sadica crudezza nel rapporto “di sangue” tra la madre Anjelica Huston e il figlio John Cusack, Colpo di spugna (1986) trasferisce l’azione nell’Africa coloniale, puntando su un grande Philippe
Noiret circondato da Stephane Audran, Isabelle Huppert e Jean-Pierre Marielle. Poi ci sono altri titoli dignitosi, come Il fascino del delitto (1979) di Corneau e Più tardi al buio (1990) di Foley, oppure cose da dimenticare come The killer inside me (1976) di Burt Kennedy o The Kill-off (1989) di Maggie Greenwald.
Adesso è arrivato The killer inside me: il modesto Michael Winterbottom non è certo l’ideale per la scrittura di Thompson, ma sullo schermo resta qualcosa sia della forza originale della storia, sia dell’ottimo cast che la interpreta.

Postato in Liguria d'essai, Numero 91, Rassegne.

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