Intervista a Marco Gianfreda, autore di Pizzangrillo

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Marco Gianfreda (foto di Andrea Volpe)

Ieri sera, venerdì 1° luglio al Genova Film Festival per il Concorso Nazionale Cortometraggi e Documentari è stato proiettato, tra gli altri, Pizzangrillo del giovane regista romano Marco Gianfreda, già autore di altri importantissimi corti, quali Tana libera tutti (2006) e Io parlo (2009), presentati in più festival internazionali e vincitori di diversi premi.

Pizzangrillo è la storia di Ettore, un uomo di 65 anni che tenta il suicidio cercarsi di buttarsi con la sua Ape in fosso. Solo il rapporto con il nipote riuscirà a risollevarlo e a fargli tornare la voglia di vivere.

Marco Gianfreda firma un’opera che trova la sua grande forza nella linearità narrativa e nella sua apparente semplicità stilistica, la quale invece cela una certa profondità nei contenuti e, come vedremo, una particolare ricerca nella messa in scena.

Il film affronta temi certamente non facili, quali la depressione e il rapporto tra un bambino e un anziano, ecc., in modo poetico, ma mai troppo retorico e melenso.

A contribuire al risultato finale del corto ci sono le interpretazioni degli attori e i bellissimi paesaggi, i quali ricordano vagamente, anche per come sono stati inquadrati, Io non ho paura (G. Salvatores, 2003).

Dopo la proiezione del film e l’incontro col pubblico, abbiamo intervistato il regista.

Sappiamo che hai frequentato numerosi corsi di sceneggiatura e che hai avuto insegnanti quali, ad esempio, Mario Monicelli e Suso Cecchi d’Amico. Parlaci di tali esperienze.
È stata molto importante la testimonianza di persone così importanti, di così grande esperienza.

Uno dei ricordi più belli che ho conservato di quelle lezioni è la proiezione di C’eravamo tanto amati alla presenza di uno degli sceneggiatori, Age. Vedere la pellicola di Ettore Scola in presenza di chi l’ha scritta è stato davvero emozionante.

L’incontro con questi autori ti ha influenzato nella realizzazione dei corti?
Dal punto di vista dello stile no, ma sicuramente hanno contribuito tantissimo a trasmettermi un certo tipo di suggestioni. Alcuni di loro mi hanno anche incoraggiato direttamente. Ad esempio, ricordo che Suso Cecchi d’Amico, proprio una poco prima di un’intervista a Repubblica, in cui sconsigliava ai giovani di fare cinema perché considerava il momento non adatto, parlandomi mi aveva invece spronato ad andare avanti nel mio sogno di cineasta.

Nella “conferenza” con il pubblico, si è parlato di un particolare che in Pizzangrillo non si nota ma che è presente: quello del giubbotto del protagonista che si sgonfia sempre di più fino a diventare vuoto, usato come simbolo della depressione. Quanto i piccoli particolari sono importanti nei tuoi film?
Moltissimo, perché anche non si vedono ci sono e in qualche modo arricchiscono il film. Ad esempio, in altri due cortometraggi ho voluto che ci fossero delle cerbottane di un certo tipo, anche se poi sono state inquadrate solo una o due volte.

Oppure, un altro particolare che in Pizzangrillo non si nota subito è quello del ragazzino che guarda divertito le piume del giubbotto svolazzare in aria, non capendo che questo è in realtà un segno di sofferenza per il nonno, il quale sta perdendo se stesso senza neanche accorgersene.

Ebbene, io ritengo questo particolare molto importante per il risultato finale del corto, anche se magari lo spettatore ad una prima visione non se ne accorge nemmeno.

Ovviamente puoi preoccuparti di tali minuzie solo quando hai tutte le condizioni basilari favorevoli, come ad esempio un buon copione, dei bravi attori e dei belli ambienti, altrimenti è naturale che i particolari di cui abbiamo parlato prima vengano trascurati.

I tuoi corti si riferiscono spesso all’infanzia e ai ragazzini. Ti sei per caso ispirato alla tua ad alcune esperienze di vita nei corti?
A parte in quest’ultimo, dove sono presenti alcune scene analoghe ad alcuni ricordi personali, in genere no. Credo, però, che il motivo per cui ritorno spesso all’infanzia riguardi da vicino la nostalgia di quando ero un ragazzino che viveva nella periferia di Roma.

Abbiamo notato che il nonno è depresso e infelice quando sta sull’Ape, quindi un mezzo a terra, mentre ritrova il desiderio di vivere quando è sul sedile in di una giostra che va in alto. È un’interpretazione corretta?
Sì, è proprio la via che volevo indicare allo spettatore, anche attraverso la frase del ragazzino che dice al nonno a proposito della giostra: “Altro che la tua Ape!”.

Inoltre, c’è una piccola analogia tra la scena del tentato suicidio sull’Ape e quella del sedile della giostra che si alza da terra: in entrambi i momenti il nonno chiude gli occhi perché teme di fare un tuffo e di cadere. Quando li riapre nella scena dell’Ape, il protagonista continua ad essere depresso, mentre in quella della giostra, accorgendosi che non è successo niente, ritorna a sperare e a non aver più paura.

Ritornando ai particolari che ci sono, ma non si vedono, faccio notare che il colore dell’Ape è lo stesso del sedile della giostra.

Quanto è durata la lavorazione del film?
I giorni di ripresa sono stati soltanto 6, ma la preparazione è stata decisamente più lunga, soprattutto per cercare gli esterni adatti, i quali si sono rivelati difficili da ritrovare, tra cui anche quel tipo di giostra, che risale agli anni ’80 ed è poco usata perché considerata non economica dai giostrai.

(di Juri Saitta)

Postato in 14° Genova Film Festival, SC-Festival, Spazio Campus.

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