“A casa tutti bene” di Gabriele Muccino

di Aldo Viganò.

Affermare che “A casa tutti bene” rappresenti al meglio l’idea che Gabriele Muccino ha del cinema (e degli esseri umani che lo abitano) non significa di necessità tesserne l’elogio, ma più semplicemente è un dato di fatto a proposito di un regista, di cui solo il successo invita a confrontarsi con la sua opera.

Il primo dato che s’impone alla visione dell’undicesimo lungometraggio realizzato dal cinquantenne regista romano è l’agitazione (oggettivamente, un po’ isterica) con cui gestisce la cinepresa, la quale anche questa volta non sta quasi mai ferma, con il risultato di inabissare subito i personaggi in un gorgo formale che sembra annunciare grandi cose, anche se poi – in fin dei conti – non significa altro che se stessa, come se si trattasse di una nuova forma di barocchismo visivo.

Questo iniziale vortice d’immagini ha, comunque, la funzione narrativa di presentare con sufficiente chiarezza un cast di prima qualità, che interpreta i vari componenti di una grande famiglia i quali si sono dati appuntamento su “l’isola che non c’è” (come dice a un certo punto l’unico scapolo della compagnia Stefano Accorsi – ma di fatto è l’isola d’Ischia) per festeggiare le nozze d’oro dei  genitori e patriarchi (i pensionati Stefania Sandrelli e Ivano Marescotti), ora circondati dai figli (due maschi e una femmina) con i loro relativi coniugi di primo o secondo letto, nonché dalla sorella di lui (Sandra Milo) e da una miriade di nipoti di diverso grado e di tutte le età.

Una rimpatriata famigliare, quella evocata da “A casa tutti bene”, che prelude a un nuovo racconto di parenti serpenti, ma che soprattutto ha la dichiarata ambizione di raccogliere su quel lembo di terra circondato dal mare un microcosmo che rappresenti l’umanità tutta. Ciò che si svolge su quell’isola, descritta ed abbracciata dai morbidi movimenti della cinepresa di Muccino, è di fatto, però, solo la saga dell’ovvio e del superficiale.

Costretti dal cattivo tempo, che impedisce l’attracco dei traghetti, a convivere per due giorni e due notti, i membri della famiglia offrono, infatti, allo spettatore un ritratto degli esseri umani, secondo Muccino. Nulla di troppo complesso o di esplicitamente drammatico, ovviamente. Lo sguardo della sua ipercinetica cinepresa si sofferma, in fin dei conti, solo su questioni di corna (e su qualche problema di soldi), lasciando però ai più giovani il compito di aprire una piccola parentesi lirica, carica di speranza. Il film di fatto è tutto qui. Poco invero per dare un credito attendibile a quel continuo dinamismo delle immagini, che s’interrompe solo per qualche duetto, coniugale o adulterino che sia, in cui si dicono e si fanno le cose più scontate e previste da tutti: anche quando i personaggi urlano o piangono.

Ecco, questo è il cinema secondo Muccino: la banalità ben incartata nello scorrere di belle immagini e personaggi senz’anima avvolti nel vuoto di sentimenti travestiti di passione.

Oggettivamente troppo poco per tenere insieme l’attendibilità di un film su tutta una comunità umana. Solo una serie di luoghi comuni a lungo andare privi d’interesse, accompagnati da dialoghi non certo esaltanti. Il tutto, come si diceva, sempre ben impaginato, ma mai credibile. Tanto che quando alla fine il patriarca Ivano Marescotti prorompe nella esclamazione: “A me la famiglia mi sta sul cazzo” gli si dà forse ragione, ma anche allora si stenta a credere che questa contenga la possibile chiave di un film, il cui significato fondamentale si è già scoperto essere solo nel narcisismo figurativo con cui Muccino rappresenta il proprio mondo, senza mai crederci sino in fondo e prendere parte in modo autentico al dolore, alla rabbia e agli altri sentimenti che affida all’interpretazione degli attori. Con il risultato che ne possono nascere solo personaggi che, nonostante tutta la loro buona volontà, esistono veramente sullo schermo solo nei siparietti in cui si riuniscono tutti intorno al pianoforte per intonare insieme con Gianmarco Tognazzi, nel ruolo dello sfigato di turno, qualche canzone di successo. La loro consistenza umana, di fatto, finisce con l’essere tutta lì: ovviamente ben impaginata da un regista che non sembra mai aver altro da dire sul mondo e sugli esseri umani che lo abitano. Purtroppo anche sul cinema.

 

 

A CASA TUTTI  BENE

(Italia, 2018)

regia e soggetto: Gabriele Muccino – sceneggiatura: Gbriele Muccino e Paolo Costella – fotografia: Shane Hurlbut – musica: Nicola Piovani – scenografia: Tonino Zera – costumi: Angelica Russo – montaggio: Claudio di Mauro.  Interpreti e personaggi: Stefania Sandrelli (Alba), Ivano Marescotti (Pietro), Stefano Accorsi (Paolo, loro figlio), Pierfrancesco Favino (Carlo, loro figlio), Sabrina Impacciatore (Sara, loro figlia), Valeria Solarino (Elettra, prima moglie di Carlo), Carolina Crescentini Ginevra, seconda moglie di Carlo), Giampaolo Morelli (Diego, marito di Sara), Sandra Milo (Maria, sorella di Pietro), Massimo Ghini (Sandro, figlio di Maria), Claudia Gerini (Beatrice, moglie di Sandro), Gianmarco Tognazzi (Riccardo, figlio di Maria), Giulia Michelini (compagna di Riccardo), Elena Cucci (Isabella, nipote di Pietro).  Distribuzione: 01 Distribution – durata: un’ora e 45 minuti

 

 

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