Attori e box office: ma il cinema dov’è?


Paolo VirziCome non essere d’accordo con Morando Morandini quando afferma (FilmDoc n° 91) che nell’ultimo decennio “la qualità media degli attori nel cinema italiano è stata superiore a quella dei registi e degli sceneggiatori”?

E come ignorare l’evidenza sottolineata da Steve Della Casa (FilmDoc n° 92) che il decennio si chiude con il “fatto che, per la prima volta dagli anni Settanta, i film italiani sono da quattro mesi stabilmente in testa agli incassi”? Ma, nell o stesso tempo, come conciliare tutto questo con la sensazione di noia profonda che mi assale quasi sempre durante la visione in sala di un film italiano? C’è innanzitutto da domandarsi a che servono attori professionalmente preparati e successi al box office se i primi non hanno sceneggiatori e registi in grado di offrire loro parole e immagini vitali e i secondi nascono da film che con il cinema non hanno più quasi nulla a che fare. Perché il problema, in fin dei conti è proprio questo: da almeno trent’anni non c’è più in Italia un cinema che si ponga in modo prioritario l’obiettivo di raccontare per immagini, assumendo si la responsabilità di fronte al linguaggio usato e cercando di dare un senso al mondo (o anche solo alle proprie storie) attraverso la scelta di inquadrature e di raccordi narrativi, e con la definizione dei personaggi tramite lo sguardo che dà loro esistenza e i ritmi che gli permettono di vivere in una specifica autonomia linguistica. Al posto del cinema sta trionfando il modello linguistico televisivo, con il risultato che anche sul grande schermo tutto diventa un prodotto usa e getta. Fondamentalmente noioso, appunto.

Prendiamo ad esempio i quattro film campioni d’incasso (Una magnifica giornata, Immaturi, Qualunquemente, Femmine contro maschi) e domandiamoci: tra coloro che li hanno visti, magari anche divertendosi, chi ha voglia di tornare a vederli? Tutto sembra già detto nell’epidermico sviluppo della recitazione di simpatici (?) interpreti e nella loro schematica struttura narrativa. Ma io non posso dimenticare che il cinema è stato ed è un’altra cosa. E allora mi domando perché invece la voglia di una seconda volta mi giunge impellente dopo la visione di Hereafter (per citare il primo non italiano in classifica ai primi di marzo), ma anche dopo quella del piccolo e discontinuo Sorelle Mai, in cui si respira comunque aria di cinema. Ed eccoci così a quello che secondo me è il punto centrale della questione. Marco Bellocchio è stato anche autore di film poco sopportabili, ma comunque erano e sono, tutte le sue, opere che hanno sempre a che fare con il cinema, chiamando in causa a ogni inquadratura la responsabilità dello sguardo e a ogni sequenza la consapevolezza di un racconto che esiste tutto nel suo farsi sullo schermo. Cito Bellocchio e potrei forse fare lo stesso con Bernardo Bertolucci, in quanto esempi di “grandi vecchi”, sovente discussi nel passato e discutibili ancora nel presente, ma comunque depositari di un’idea di cinema che mi fa aspettare con speranza ogni loro nuovo film. Ma chi altro c’è intorno a loro? Il quadro è oggi in questo senso sconfortante, tanto che l’unico nome che mi viene in mente è quello d i Paolo Virzì, sul quale intendo ritornare.

Con tutta la buona volontà non sono assolutamente riuscito a condividere gli entusiasmi per lo schematismo tra televisivo e intellettuale di Noi credevamo di Mario Martone . Vedo in Carlo Verdone un attore simpatico che non è però mai riuscito a tradurre in cinema la poliedricità della sua recitazione. Stento a sperare che l’amico Gianni Amelio o Nanni Moretti riusciranno ancora a sorprendermi con un loro film. Penso che Pupi Avati sia molto più interessante come regista gotico che come autore cinematografico. Mi è molto difficile vedere il futuro del cinema italiano nei film di Giorgio Diritti o di Andrea Molaioli o di Pietro Marcello o dai tanti registi che ogni tanto alzano la testa dall’anonimato, per poi tornare a far perdere le tracce di sé. Che altro dire? Forse, Luca Guadagnino ci darà un giorno quel bel film che persegue con esibita tenacia: ma che aspetta visto che ha già quarant’anni? Poi c’è Matteo Garrone, il cui gusto di raccontare per immagini sembrava emergere con forza nei suoi primi film, ma che oggi dà l’impressione di essersi perduto dopo il successo internazionale di Gomorra. E poi? Allora, per fortuna, c’è ancora Paolo Virzì (eccolo di ritorno), se non altro perché egli è forse l’unico regista italiano che oggi è ancora in grado di testimoniare la sopravvivenza di quel cinema che sapeva guardare alla realtà, trasformandola in commedia abitata da personaggi vivi e umanamente autentici.

Ma Virzì – di cui non ho ancora visto Se non ci sono altre domande: lo spettacolo teatrale destinato poi ad avere anche una circuitazione cinematografica via etere – corre il rischio oggi di essere un sopravvissuto all’interno di una cinematografia in cui il travaso tra fiction e cinema, giustamente individuato da Steve Della Casa, è avvenuto in Italia nel senso esattamente opposto a quello che è stato ne gli Stati Uniti: non il cinema che invade con il suo linguaggio, rinnovandolo, il terreno produttivo della fiction; ma un crescente processo di soffocamento di questo su quello, con la conseguenza che il cinema in Ital ia, o rmai privo di un’industria e di un vero apparato critico-produttivo, sembra destinato inesorabilmente a non avere altro futuro che quello della sciatteria televisiva.

(di Aldo Viganò)

Postato in Argomenti DOC, Numero 93, Varie.

I commenti sono chiusi.