Paolo Sorrentino – Il regista in più


Paolo SorrentinoTra i registi che si sono fatti un nome, un bel nome, negli ultimi anni e che sono oggi i nostri portabandiera in campo internazionale, Paolo Sorrentino, classe 1970, è il più giovane. Più di Garrone e Frammartino, entrambi 1968, di Gaglianone che è del 1966, di Crialese, 1965, di Virzì, 1964, e del decano Martone che è del 1959, per non risalire fino al sempre verde Moretti che è addirittura del 1953. In questa ottima compagine, Sorrentino ricopre il ruolo dell’inventivo e affidabile fantasista.
Il regista napoletano si è fatto notare da subito per la combinazione messa in atto nei suoi film, un connubio di eccentricità e rigore. Un’eccentricità, sia realistica che visionaria, di personaggi, storie e ambienti, e un rigore geometrico dei punti di vista, delle inquadrature, dei movimenti di macchina. Come se la strada percorribile per rappresentare le mostruose “cose italiane” degli ultimi decenni non potesse che essere quella di un’eccentrica chiarezza, di una bizzarria controllata, di un’esattezza grottesca. L’Italia deforme di Sorrentino sta chiusa dentro film pirotecnici e padroneggiati, esuberanti e meditati.
L’uomo in più, primo film del 2001, racconta di due uomini che hanno lo stesso nome e cognome, Antonio Pisapia, uno calciatore, Andrea Renzi, l’altro cantante, Toni Servillo. Il tema del doppio per due personaggi omonimi, diversi e uguali nella loro parabola di perdenti. Doppi anche gli ambienti: una casa fredda per il cantante, una villa chiusa per il calciatore, più il palcoscenico per il primo e il campo da calcio per lo stopper. Nella vita non esiste il pareggio e l’esistenza è solo «’na strunzata» dice il cantante. Il buio avvolgerà i due Pisapia dentro il definitivo sprofondamento antropologico italiano. Domanda: non è che Sorrentino è l’erede, insieme, della commedia all’italiana e dell’amarezza pasoliniana, con una vena di acre disgusto per la nostra inarrestabile decadenza?

Decisive le relazioni tra personaggi e luoghi. Titta Di Girolamo, ancora Toni Servillo, protagonista di Le conseguenze dell’amore, vive recluso in un ovattato albergo svizzero, prigione dorata e pericolosa. Uomo invisibile, per gli altri e per se stesso, chiuso dietro un volto senza reazioni, già cadaverico. Film come natura morta con persona pietrificata in un limitato paesaggio di interni geometrici. Non potrà che essere fatale l’apparire, inaspettato e vivo!, di un amore per una giovane donna.

Una disposizione molto simile si ritrova nel successivo L’amico di famiglia, che ha per ambienti un dentro e un fuori: l’interno dell’appartamento del sordido usuraio Geremia de’ Geremei, una tana oscura e lercia, un antro abitato da un’orribile vecchia madre, e un rigido mondo esterno, segnato dalle architetture metafisiche, dechirichiane e squadriste dell’Agro Pontino. E anche stavolta l’usuraio si perde, sedotto dalla bellissima figlia di un suo cliente. Per Sorrentino, è la vita viva a mandare in rovina le morte vite dei suoi personaggi. In studiata opposizione allo stile prosciugato di Le conseguenze dell’amore, L’amico di famiglia è barocco, di un barocchismo enfatico e sfiancato che insegue e scopre la bruttezza e la cattiveria. La mostruosità. Ecco la parola: mostruosità. Sorrentino individua in questo film la chiave per rappresentare l’oscenità (ciò che dovrebbe essere confinato fuori dalla scena…) su cui si fonda il nostro paese. Non a caso il film, alla sua presentazione a Cannes, era stato accolto tiepidamente: troppo squilibrato e sgradevole, miserabile, sporco. In realtà, con L’amico di famiglia, Sorrentino anticipa il successivo Il divo: nel primo, l’Italia dei bassifondi; nel secondo, l’Italia del potere assoluto, divino e farsesco; e i due film si rispecchiano uno nell’altro. Il piccolo e potente Geremia che si copre la faccia con le fette di patate crude per farsi passare il mal di testa è parente stretto del divino e potentissimo Andreotti alle prese con le stesse cefalee. Tutti e due tragicomici, isolati nella loro incancrenita morte interiore, abitanti di un bestiario italiano disegnato da Sorrentino a futura memoria (per quando si festeggeranno, tra le polemiche, i duecento cinquecento mille anni della nostra nazione). Sentenzia il divo Giulio: «Non hanno idea delle malefatte che il potere deve commettere per assicurare il benessere e lo sviluppo del paese. Abbiamo un mandato, noi. Un mandato divino. Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene. Questo Dio lo sa, e lo so anch’io».

Adesso Sorrentino è andato all’estero a girare This Must Be the Place, con Sean Penn, Frances McDormand, la poliziotta di Fargo, Robert De Niro, Harry Dean Stanton e Toni Servillo. Colonna sonora di David Byrne. Si racconta la storia di un altro divo, stavolta del rock, ricco e annoiato, che si è ritirato dalle scene e si mette in cerca del criminale nazista che torturò suo padre ad Auschwitz. Il film è in concorso a Cannes. Non se ne sa molto. Si vedono in rete alcune foto di Sean Penn nelle vesti del protagonista. Sembra un perfetto personaggio alla Sorrentino, quasi un Alice Cooper stufo di essere diabolico, aria stanca, lunghi capelli corvini scompigliati, occhi bistrati, labbra dipinte, sguardo sperso, una valigia trascinata dietro. Nome: Cheyenne. Una commedia stralunata? Un film sul rapporto padre e figlio? Un’altra discesa agli inferi?

(di Bruno Fornara)

Postato in Numero 93, Registi.

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