L’albero di Malick


L'albero della vitaArriva finalmente The Tree of Life, con Brad Pitt e Sean Penn. E i bookmakers lo danno già favorito (3 a 1) per la conquista della Palma d’oro.
E’ bastato l’annuncio della presenza di Terrence Malick tra i registi in gara al 64esimo Festival di Cannes per mandare in tilt i siti specializzati, infiammare le linee telefoniche e far corrugare la fronte ai critici di mezzo mondo. Come, ci si è chiesti, Malick in concorso?
Malick che, dopo anni, riemerge dalla sala di montaggio? Malick che abbandona la clausura, indossa lo smoking e calpesta il tappeto più rosso della Costa Azzurra? Questo ed altro è passato per la testa degli addetti ai lavori nel commentare una notizia imprevista che getta luci innegabilmente accattivanti sull’imminente kermesse francese. Nessuno in fondo, con la sua “ingombrante” assenza, sa far parlare di sé come il mitico autore de La sottile linea rossa.

Terrence MalickGià studioso di Heidegger, quindi regista di grandi spazi naturali e riflessioni sul significato profondo dell’esistenza umana, il celebre recluso texano è, a quasi quattro decenni da La rabbia giovane (1973), una figura ancora largamente indecifrabile, misteriosa, avvolta da una coltre di punti interrogativi che ha sfidato tutti i recenti sconvolgimenti bellici e climatici con una resistenza paragonabile solo a quella dei più sotterranei culti esoterici. Il mondo cambia, intere generazioni di cineasti si avvicendano sulla ribalta della Storia, ma l’idolatrato Malick resta sempre lo stesso enigma: un figlio di petrolieri che in trentotto anni ha firmato solo cinque regie e ridotto la propria immagine pubblica ad uno sfocato primo piano sorridente con barba e cappello, superando così in misantropia e distacco dalla vile industria persino l’ultimo Kubrick.

Anche per questo la presentazione sulla Croisette di The Tree of Life si profila come l’evento più importante dell’annata cinematografica in corso. Le prime immagini del film – la cui uscita è prevista appunto a maggio – lasciano indiscutibilmente a bocca aperta: un susseguirsi di steadycam fluttuanti e tagli di luce suggestivi, con i volti di Brad Pitt e Sean Penn alternati a riprese cosmiche di pianeti e soli in movimento. L’effetto è grande, tanto quanto lo è stata l’attesa per un progetto covato a lungo (sin dagli anni ’70, sembra), protrattosi nel tempo tra modifiche e revisioni infinite, e che soprattutto ha logorato i fan mettendone a dura prova le capacità di sopportazione. Un progetto, questo, annunciato nel 2005, con Mel Gibson e Colin Farrell come protagonisti, poi già stravolto l’anno seguente con il subentro di Penn e Heath Ledger, ed infine costantemente ridefinito da un inseguirsi incessante di notizie contraddittorie, indiscrezioni e smentite che si è interrotto solo con l’inizio delle riprese, nei primi mesi del 2008, una volta arruolato Pitt. A quel punto una cappa di silenzio ha ricoperto l’intera produzione fino al 2009, quando si è iniziato ad ipotizzare fantomatiche uscite e presentazioni festivaliere. Il valzer delle date ci ha accompagnati all’inatteso annuncio del direttore Frémaux, che ha perciò segnato la fine di un gioco alla dilazione, se così si può dire, ormai evidentemente frutto di fosche manie autoriali. Inutile negare che tale trambusto abbia generato un’aspettativa mostruosa, come del resto accade di regola ad un regista che – come scrisse anni fa Newsweek – anziché fare film, erige cattedrali. E se i soliti bookmakers inglesi profetizzano la Palma d’oro, nel mondo reale ci si sforza di leggere tra le righe della sinossi offerta al pubblico. La crescita di tre fratelli nell’America anni ’50? Il rapporto padri-figli? Amore e sentimenti in una vicenda individuale che si proietta letteralmente nell’universo? Per ora, di certo, ci sono solo immagini mozzafiato e supposizioni prossime al duro confronto con la realtà dell’opera d’arte. Ciò che conta davvero è la fine dell’attesa: chi vorrà potrà finalmente arrampicarsi sull’albero di Malick.

(di Massimo Lechi)

Postato in Festival, Numero 93.

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