Il molto onorevole Mr. Pulham (King Vidor,1941)

di Oreste De Fornari.

Se a qualcuno venisse in mente di trovare un ritratto cinematografico dell’alta borghesia genovese o di come questa classe sociale immaginava se stessa, con i suoi codici non scritti, i suoi rituali, i suoi tabu, le sue invisibili barriere, dovrebbe cercarlo lontano dall’Italia, forse nel cinema inglese, da Pinter a Dowton Abbey, o anche a Hollywood. Già in Sabrina di Wilder, Bogart nei panni di un armatore dall’aria falsamente burbera  ricorda tanti suoi colleghi che fino a trenta o quaranta anni fa si potevano incontrare al Palazzo della Borsa di De Ferrari. Memorabile il discorso che fa a Audrey Hepburn per esaltare i meriti del capitalismo. Il fratello frivolo William  Holden invece lo vedremmo bene nei campi da tennis o alla guida di auto sportive sulle strade del Tigullio.

Meglio ancora come radiografia del genovese liberale (e liberista) Il molto onorevole Mr. Pulham di King Vidor (1941), bilancio della vita di  un uomo senza qualità (Robert Young) raccontata da lui medesimo. Un bostoniano che non esce mai dal solco della tradizione –  college, sport, servizio militare (durante la guerra 15-18), ufficio (fa il consulente finanziario), matrimonio… – comportandosi sempre come un perfetto gentiluomo, secondo gli insegnamenti paterni. Il tic tac della vita quotidiana è descritto con tenera ironia dalla voce interiore dl protagonista. Anche in un momento solenne come il matrimonio  l’accento cade sul vistoso pomo d’Adamo del celebrante.

Solo una volta nella vita Pulham è tentato di uscire dai binari, quando va a lavorare a New York in un ufficio di pubblicità (come “creativo” diremmo oggi) e qui si innamora di una sua collega, donna indipendente, anticonformista (una che si incipria e si dà il rossetto in pubblico) e bellissima (è interpretata da Hedy Lamarr). Si amano, lui la porta a conoscere i suoi, la chiede in moglie, lei accetta, ma non è disposta a trasferirsi a Boston. Si lasciano. Nessuno dei due vuole cambiare stile di vita. Si incontrano vent’anni dopo, si amano ancora,  ma non tornano sulle loro decisioni.

Oggi può lasciare perplessi che l’anticonformismo sia identificato col lavoro nella pubblicità (Godard, tra i tanti, ci ha insegnato a diffidarne). ma il contrasto fra i due mondi, della tradizione e della modernità, simboleggiato dalle due città. di Boston e di New York, è perfettamente comprensibile per un pubblico italiano.  Pulham potrebbe essere  un genovese che ha rinunciato allo “scagno” in Sottoripa  per lavorare in un’agenzia nella Milano da bere. D’altronde il conformismo in questo film non è tanto opprimente. A Boston Pulham si è sposato con un amica d’infanzia, relativamente evoluta  e  intelligente  (anche lei, ci viene fatto capire, per sposarsi ha rinunciato a una relazione precedente), ha due figli, frequenta dei vecchi compagni di scuola…

Le caricature sono ridotte al minimo.. Per esempio il tradizionalismo del padre di lui (Charles Coburn) non è messo veramente in ridicolo. Il senso della misura, il garbo, l’autocontrollo, sono insieme forma e contenuto . Il racconto tutto in prima persona, a base di flash back, incentrato su quell’unica occasione mancata di cambiare direzione alla propria vita, è pervaso da un senso di serena amarezza.

La relativa brevità del film, rispetto al romanzo da cui è tratto, rende il tema della rinuncia irrevocabile. Tra le idee di regia più felici l’uso delle scale in senso drammatico.  L’anziano genitore ,amareggiato per la scelta del figlio di tornare a New York, che sale la scala interna  ( lo rivedremo solo sul letto di morte) o  Harry che scende le scale dell’ appartamento di Hedy Lamarr dopo che si sono lasciati.  Un dramma ma non un melodramma, a differenza di film più noti di Vidor come Duello al sole e La fonte meravigliosa (nel cui stile flamboyant  il regista diceva di non riconoscersi ). Piuttosto è vicino a La folla ,un  capolavoro del realismo girato ai tempi del muto. A proposito di realismo, il fatto che le lettere fossero lette dalla voce fuori campo del mittente rappresentò una novità per l’epoca  .

Nel romanzo di John P. Marquand ci sono particolari interessanti ma non essenziali,  sul piano sociologico ( il paragone con il mondo degli insetti, esistono  specie destinate a scomparire, come certe classi sociali), psicanalitico (la sorella di Harry che spiega il complesso di Edipo al fratello), politico (Harry vota repubblicano  e detesta Roosevelt, mentre l’amico Van Heflin nutre simpatie radicali). Il romanzo è uscito nella Medusa di Mondadori nel ‘48 e non è più stato ristampato.

Non lo si può dire un film maledetto. Fu elogiato seppur  cautamente da Aristarco e suscitò l’entusiasmo dei genovesi della nostra generazione. Sandro Ambrogio  ne possedeva una copia a 16 mm e la proiettò al Cuc nel ‘70. Ghezzi lo fece ridoppiare per Rai Tre negli anni Ottanta. Trotta lo commentò  brevemente  su “La magnifica ossessione”, la rivista di Marchelli, accostandolo a L’educazione sentimentale di Flaubert, per il tema della vita mancata.  Con Ambrogio abbiamo incontrato Vidor a Sorrento nel  settembre del ‘70. Non ricordo cosa ci ha detto di questo film, ma sebbene nato nel Texas, ci fece l’impressione di un perfetto bostoniano. Richiesto di come aveva vissuto l’epoca del maccartismo rispose che aveva fatto in modo di evitarlo. Una risposta degna di Mister Pulham (e di Andreotti).

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