Il soldato senza nome: la storia di Sergio Grieco e del suo film “Il sergente Klems”

di Teresio Spalla.
E’ divenuta quasi una banalità riscoprire film e registi che non ebbero fortuna nel passato.  Ormai sono trascorsi cinquant’anni da quando i giovani critici italiani – in imitazione della Nouvelle Vague francese che aveva rivalutato i grandi artigiani hollywoodiani contro il cinema di papà parigino – tiravano fuori dalla polvere della memoria Matarazzo e Mattoli, Freda e Campogalliani.
Che poi questi fossero stati cineasti di successo e consumo quando il neorealismo e il cinema d’autore veniva attaccato dalla censura e dai prefetti, e i loro predecessori rischiavano la galera per difendere la libertà di pensiero di Visconti e Zavattini, non aveva molta importanza.
La trascuratezza della critica più matura era colpevole e perciò andava punita; la confraternita degli stagionati doveva lasciare il posto agli apprendisti.
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A dire il vero in Francia autori come René Clair o Duvivier poterono continuare a fare film anche quando i redattori dei Cahiers du Cinéma divennero anch’essi registi e si divisero il mercato con i loro insultati nemici.
In Italia è stato tutto più complicato perché mentre il cambio della guardia avveniva senza ferimenti tra le generazioni di cinematografari, furono quasi esclusivamente i critici a reclamare posti in redazione e in tv.
Così si arrivò al dibattito sul cinema trash – ospitato da Repubblica nell’81 – che fu un punto di arrivo ma non di svolta.
E dovettero passare quasi trent’anni perché, con le retrospettive del cinema italiano segreto, alla Mostra di Venezia di Marco Muller, l’elogio della serie z arrivasse ad un encomiato traguardo istituzionale.
Dopo di che, se tutte le rivalutazioni erano state possibili (e molte azzeccate e apprezzabili, è giusto dirlo) iniziò la riscoperta proprio di quel cinema di papà che, nel 2012, ha avuto il riconoscimento di una rassegna corredata da un bel libro di Alberto Crespi.
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Fatto sta, non essendo qui possibile rievocare tutte le contraddizioni anche ideologiche e di stile oggi emerse e riassorbite nel palinsesto sgrammaticato della tv dai mille canali, tenendo conto come ragioni e torti finirono con l’intaccare tutte le parti in commedia (che commedia, magari iraconda, ma commedia fu; il risultato magari no) non di cinema segreto parliamo ma di cinema neppure ritrovato dagli scavatori delle buche nel catrame.
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Il regista Sergio Grieco (1917-1982) fu uno di quei mestieranti che, per bisogno e per scarsa fortuna, si dedicò, per tutta la carriera, a prodotti di genere vario.
Ma la sua pur prolifica avventura cinematografica, iniziata a vent’anni, nacque e inizialmente si sviluppò in un contesto del tutto singolare e accidentato.
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Era figlio di Ruggero Grieco (1893-1955) di cui si è discusso assai, nel dibattito storiografico recente, a proposito della famigerata  “lettera a Gramsci”, che, secondo lo stesso destinatario, già abbastanza provato da carceri e malanni, fu definita “un atto scellerato o di una leggerezza irresponsabile?”.
In questa lettera, informando Gramsci della situazione politica al vertice dell’Urss, lo denunciava indirettamente come membro del comunismo internazionale, condannandolo ad un’eterna pena in Italia da dove non poteva più fuggire.
Luciano Canfora ha avanzato l’ipotesi che questa lettera fosse un falso della polizia politica fascista ma, ammettendo fosse stata veramente scritta da Grieco, getta una luce sinistra su questo marmoreo  militante della causa bolscevica all’epoca già del Pci in accordo con Stalin e Togliatti.
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Del resto Ruggero Grieco non era nuovo ad atti discutibili.
Fondatore, nel ’21, del Partito Comunista d’Italia e posizionato inizialmente nell’ala bordighiana in contrasto con quella gramsciana, si avvicinò poi a questa, risultata vincitrice all’interno dell’allora minuscola aggregazione, per essere condannato, nel ’27, a diciotto anni di carcere dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato.
Era però sfuggito alla pena rifugiandosi in Svizzera e poi in Francia fin dal ’26 e qui, in relazione diretta con Mosca, nel ’34, divenne segretario del Partito prima aderendo alla sciagurata tesi del socialfascismo e poi abbandonandola per un’altra controvertibilissima iniziativa, quella dell’inutile Appello ai fratelli in camicia nera, che fece in tempo a contraddire anch’essa fino al termine della carica nel ’38.
Dal ’32 fu in Unione Sovietica dove rivestì incarichi internazionali che lo facevano spostare da un fronte all’altro.
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Quando trattiamo del figlio Sergio non possiamo quindi tralasciare come egli, fin dall’infanzia, subì le ritorsioni fasciste sulla famiglia; a nove anni la seguì a Parigi, a ventisette, e contro voglia, a Mosca.
Quale fosse il suo rapporto con questo padre, passato alla Storia come tra i più monolitici seguaci di Stalin, lo raccontava lui stesso ai  suoi collaboratori, alcuni miei amici e compagni che fecero in tempo a parlarne anche a me dopo la sua morte.
Da una parte provava un grande rispetto ed affetto per questa figura che, come genitore, non gli fece mancare affettuosità e comprensione.
Dall’altra rimpiangeva come, a causa sua, non avesse potuto collaborare, come altri socialisti e comunisti alla nascita del Neorealismo nel contesto della rivista Cinema e nell’affiancarsi a Visconti, De Santis, Lizzani, Gianni Puccini e il fratello Massimo Mida, già allora impegnati a divenire sceneggiatori e registi in una situazione giovanile ricca di amicizie femminili, avventure ed avvenimenti festosi autorizzati da Umberto Barbaro al Centro Sperimentale e dallo stesso Vittorio Mussolini.
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L’amore per il cinema, nato nell’adolescenza, era stato il suo modo per sfuggire all’atmosfera continua di oscura estraneità a cui erano condannati i rifugiati in Francia e al clima poco invidiabile nell’ambiente, a Mosca, dei dirigenti del Cominform arrivati da tutti i paesi.
Ma quest’amore lo aveva visto mal digerito da una giovinezza disagiata e priva di quei contatti necessari che gli sarebbero stati utili al momento del ritorno in Italia.
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Ciò nonostante, a Parigi, riuscì a divenire assistente di Germaine Dulac, l’indomita regista e teorica vicina a Delluc ma anche a Dalì e Bunuel.
Quest’esperienza lo condusse quindi ad approfondire il futuro del cinema documentario in cui la Dulac eccelleva.
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Nella capitale del bolscevismo riesce a farsi introdurre all’ambiente del cinema e diviene assistente tuttofare di Nikolaij Ekk, il vivace ex allievo-attore di Mejerchold e regista di un capolavoro che godeva già allora di notevole fama oltre i confini della Russia : Il cammino verso la vita (’31) diretto poco prima che Sergio Grieco arrivasse sui suoi set.
Con Ekk, per le sue stesse parole, il giovane italiano imparò che, anche in Urss, era possibile sviluppare un cinema d’eccezione se non si cadeva nell’antipatia di Stalin, propenso a lasciare una certa libertà ad un linguaggio che sapeva più d’ogni altro diffondersi nel mondo.
Grieco  figlio collaborò così a due film del regista e a La fiera di Sorocinski (’38) il primo film sovietico a colori e l’ultimo prima del ritorno nell’Italia in guerra nel ’39.
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Mentre il padre era ancora clandestino e poi durante il periodo della Roma liberata, finalmente Sergio Grieco riuscì a partecipare a quel mondo artistico che, a sentir lui, lo accolse serenamente ma senza riuscire mai a coinvolgerlo come “uno di loro”.
Fu quindi assistente di Poggioli – tra il ’41 e il ’43 – di Alessandrini – Giarabub del ’42 – e Marco Elter fino al ’43.
Dopo il 25 luglio evitò di spostarsi al Cinevillaggio di Venezia e si avvicinò a Soldati senza però essere promosso ad aiuto regista fino a Quartieri Alti, concepito prima, realizzato durante, ed uscito dopo la Liberazione.
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Nominato il padre, dal governo Bonomi, alto commissario per l’epurazione (da cui fu colpito per poco tempo proprio Alessandrini, tra i pochi registi accusati di collusione col fascismo) Sergio riuscì a seguire le riprese di diversi film di consumo girati in quel periodo e ad avvicinarsi soprattutto a Massimo Mida che lo portò nel giro del più giovane cinema neorealista.
E’ stato proprio da Massimo, infaticabile memorialista della rinascita del cinema italiano, che ho appreso di Sergio Grieco e delle sue fatiche per divenire un autore di rispetto.

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A Roma, forte delle esperienze all’estero più di quelle in Italia, cercò per qualche anno di realizzare un film – tratto da un romanzo dello scrittore cosentino Pietro Giannone, Lauretta o la seduzione del 1839 –  senza ottenere alcun risultato soprattutto per le incertezze economiche della cooperativa di piccoli possidenti a cui s’era rivolto.
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Nel ’49 riuscì però, grazie a due produzioni indipendenti sempre in forma cooperativistica, a realizzare il suo debutto nella regia con La vita riprenderà.
Nel primo progetto, risalente all’immediato dopoguerra, doveva intitolarsi più ottimisticamente La vita ricomincia ma Mattoli lo batté sul tempo uscendo col film dallo stesso titolo già nel settembre del 1945.
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Scritto con giovani sceneggiatori non destinati a luminoso futuro – Fabio De Agostini e Carlo Veo – e girato neorealisticamente nelle campagne cosentine, La vita riprenderà è sorretto però da un ottimo cast : Andrea Checchi, Carla Del Poggio, l’allora famoso Ermanno Randi (che morirà due anni dopo ucciso dal suo compagno a colpi di rivoltella; uno scandalo che fece molta eco nella cronaca del tempo) e Marina Berti.
Tra gli auto-registi c’è Franco Solinas. Giuseppe Rotunno operatore alla macchina.

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Il film racconta di due famiglie contadine, il cui contrasto avito è inasprito dalla concorrenza nell’allevamento delle pecore da lana, nel cui seno si sviluppa l’amore tra due giovani che si sentono estranei alla faida ed auspicano, con la purezza dei loro sentimenti, di porre fine ai contrasti auspicando un nuovo futuro di lavoro e idee nuove nel territorio cosentino.
Ma La vita riprenderà non è destinato a un facile futuro.
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Intanto Ruggero Grieco è entrato alla Costituente, verrà poi eletto senatore fino alla morte (’55) ed è responsabile della politica agraria del Partito.
Si occupa della strage di Portella della Ginestra e del banditismo di Salvatore Giuliano, stabilisce sintonia con Gerolamo Li Causi, l’uomo simbolo del Pci in Sicilia, che lotta sul territorio.
Non poteva quindi la censura dell’epoca, che fa capo a Giulio Andreotti quale sottosegretario allo Spettacolo, non occuparsi del primo film del figlio di un uomo politico di ferrea fedeltà togliattiana e filosovietica ritrovato a impicciarsi di fuorilegge, carabinieri, avvelenamenti in carcere.
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La Sauc, una delle due cooperative che producono La vita riprenderà si stacca dal progetto e con essa una parte del budget.
Rimane la Cce che chiede di cambiare il titolo per adeguarlo al filone sentimentale in auge dopo l’enorme successo di Catene (’49) di Matarazzo.
Il film assume il titolo, poi rimasto, di Il sentiero dell’odio che in realtà richiama di più ai film di Germi del periodo.
Ma non è nemmeno escluso che qualche rimaneggiamento del copione originale avvenga durante le riprese dopo la perdita considerevole dei fondi a disposizione.
Pronto nel settembre 1950 non riesce ad ottenere il visto di censura fino all’agosto 1951 impedendo al regista di realizzare il sogno, forse inesaudibile, di presentarlo due volte alla Mostra di Venezia.
Uscirà, senza alcun successo, a Roma nel novembre ancora del ’51 e, nelle altre città capozona, soltanto nell’estate del ’52.
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Le poche voci critiche che abbiano rintracciato sono severe anche perché i recensori non sanno nulla delle traversie di Il sentiero dell’odio che, a parte il cast, si presenta come un succedaneo del cinema d’appendice.

E così Sergio Grieco, rimasto senza un soldo, spende una certa notorietà come diligente cineasta firmando film comici.
Uno è su misura di Tino Scotti – I morti non pagano tasse del ’52 – che incassa centoventi milioni in più rispetto al film d’esordio.
Il secondo – Non è vero ma ci credo dello stesso ’52 – dall’omonima commedia di Peppino De Filippo che la interpreta anche al cinema con la sorella Titina, incassa il triplo.
Il terzo sempre dello stesso 1952 – Primo premio Mariarosa – con Carlo Campanini, Isa Barzizza, Carlo Croccolo e Fulvia Franco, costa poco ma porta al botteghino di che rifarsi ampiamente delle spese.
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A questo punto Sergio Grieco diventa noto come un regista che gira con velocità, non sbaglia un’inquadratura (e ne ripete pochissime) ed inizia a godere la fiducia delle produzioni solide o improvvisate che vedono nelle commedie un successo immediato da sfruttare al massimo nelle seconde e terze visioni.

Ai film citati si imparenta quindi Fermi tutti arrivo io (’53) ancora con Tino Scotti che esce dopo ma è girato, nello stesso anno, prima dell’inevitabile esordio nel film sentimentale – Suor Celeste, poi Amarti è il mio peccato – con Jacques Sernas, Luisa Rossi, Alba Arnova e Elisa Cegani;  prodotto da Ottavio Poggi già finanziatore delle opere precedenti, che entra in censura e ne esce dopo un brevissimo giorno di attesa.
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Nel ’55 il regista si prende una pausa.

Assiste il padre malato che però si farà forza e andrà a morire, il 24 luglio, al suo posto di lavoro, in un comizio a Sant’Agata di Santerno in provincia di Bologna.

Sergio pensa ancora di poter rifarsi nel cinema d’autore emigrando in Francia.

Tenta l’assunzione alla Rai ma la proposta è lasciata cadere da lui stesso dopo essersi informato sui parchi cachet dell’emittente di Stato, sebbene non sia stata bocciata, come sospettato, in quanto Grieco si era presentato come possibile autore di documentari.
Ma le pessime condizioni economiche in cui è lasciato dalla famiglia e dal Partito lo spingono, alla fine, ad accettare una nuova proposta di Poggi.
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Nel ’55, con Mogli e amanti poi intitolato Tua per la vita, inizia un lungo percorso, di quindici film in nove anni.
Passa dal genere avventuroso (Giovanni dalle Bande NereLo spadaccino misterioso; Il Diavolo nero)  a quello piratesco (Il pirata dello Sparviero nero) al genere storico-sentimentale (Pia dé Tolomei) mentre Le notti di Lucrezia Borgia, girato in Eastmancolor nel ’59 – con Belinda Lee, Jacques Sernas, Michele Mercier e un improbabile (e doppiato) Franco Fabrizi nel ruolo del Valentino – già cavalca l’evoluzione popolare del cinema italiano  e può permettersi qualche pudico accenno erotico dopo il boom de Le fatiche di Ercole di Francisci uscito l’anno precedente.

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Invece Salambò, del ’60 – con Sernas, Jeanne Valérie e Edmund Purdom – è il suo primo peplum seguito da La schiava di Roma; La regina dei tartari;  Giulio Cesare contro i pirati.  E Il capitano di ferro (’62) storico-avventuroso è girato in Jugoslavia.

Il ciclo finisce tra il ’63 e il ’65 con Il figlio del circo, coproduzione italo-francese che in Italia entra nel circuito dei film per ragazzi; La ragazza meravigliosa una commedia sentimentale girata in Spagna; Una spada per l’impero, tardo sandalone a costi ridotti che andrà in sala dopo i suoi due primi successi del periodo successivo.
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E’ giusto comunque, in questa scorribanda di titoli commercialissimi, notare la presenza di Ciao ciao bambina (inizialmente Piove come il titolo esatto della canzone) realizzato nel ’59 con l’idea, di Agliani e Mordini  – che lo prevendono così alla già affermata Euro International Film – di un musicarello antelitteram tutto basato sullo strepitoso successo canoro di Domenico Modugno.

Ma Modugno non c’è. Il protagonista designato, che aveva iniziato come attore ed era stato allievo del Csc, ormai è lanciato come cantante. Ha si alle spalle ben trenta film tra cui il più che dignitoso e interessante Nel blu dipinto di blu di Piero Tellini, uscito in contemporanea al festival di Sanremo nello stesso 1959 a dimostrazione che non tutti i divi della canzone fanno degli occasionali filmetti di sostegno alla discografia. Ma ora sta lavorando a tre pellicole una dopo l’altra tra cui l’altrettanto interessante Esterina di Carlo Lizzani, opera degna di attenzione anche per la sensibile e irruente interpretazione di Carla Gravina, presentata a Venezia con richiamo di critica e viatico di pubblico popolare nella sale.
Quindi Sergio Grieco deve arrangiarsi con Antonio Cifariello e Riccardo Garrone che si disputano Elsa Martinelli e Lorella De Luca in un prodotto che s’inserisce nel filone di Poveri ma belli.
Ne esce comunque qualcosa di non sgradevole. Per esempio manca la scarsa considerazione, tipica di Dino Risi e altri, per personaggi di giovani futili e un po’ stupidi.

Qui, nonostante la trama e l’ambiente similari, prevale una certa malinconia di fondo, un gusto per l’illustrazione di un mondo giovanile popolare, senza bussola e senza autentici sbocchi ad un senso banale della vita, che ormai preme per cambiare.
Poco serve questo giudizio espresso ora. Sergio Grieco era ormai un regista che rispondeva solo al pubblico rumoreggiante e di bocca buona dei giganteschi cinemoni di periferia, alla programmazione infrasettimanale delle sale di provincia.
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A confermare c’è il ciclo di film d’imitazione in cui Grieco, spesso con lo pseudonimo di Terence Hathaway (!), si specializza dal ’65, dopo aver girato Una spada per l’impero  fatto prima ma uscito dopo Agente 077-Missione Bloody Mary con il comprimario americano Ken Clark,  venuto in Europa in cerca di fortuna, nei panni di un James Bond ridotto a personaggio schematico, dall’attrattiva legnosa, tutto impegnato in una vicenda dagli ambienti cartolineschi e dall’episodica tanto banale quanto stringente.
Il film, coproduzione francoispanica, è prodotto, diffuso in Italia e venduto all’estero, da Edmondo Amati che lo piazza a tappeto nelle sue sale e lo impone alla distribuzione regionale, quindi riscontra un certo successo, soprattutto in Germania dove il genere spionistico gode di un notevole interesse per cui sono giù nati e nasceranno altri personaggi consimili all’Agente 077.
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Sergio Grieco ne girerà due seguiti – Agente 077-Dall’Oriente con furore sempre nel ’65 e Agente 077-Missione speciale Lady Chaplin (’66) con lo stesso Ken Clark  e quasi i medesimi comprimari – a cui vanno aggiunti altri quattro film dello stesso tipo e con le stesse scarse ambizioni messi in piedi tutti da Amati tra il ’66 e il ’67 : Tiffany Memorandum; Come rubare la corona d’Inghilterra; Password-Uccidete agente Gordon; Rififi ad Amsterdam; Rapporto Fuller-Base Stoccolma.
Il primo è ancora con Ken Clark, gli altri con l’ancor meno empatico Roger Browne.
Cambiano le protagonisti femminili che Amati sceglie personalmente tra la bellezze straniere piovute a Roma con l’affermazione internazionale del cinema italiano e incantate dalla dolce vita capitolina : Margaret Lee, Helga Liné, Dominique Boschero, Aida Power e Beba Loncar.
Non per tutte la vita in Italia sarà infine dolce come speravano.
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Dopo Rapporto Fuller-Base Stoccolma – dove ritorna Ken Clark – girato nell’estate del ‘67 ed uscito in tutta Europa nei primi mesi del 1968, nonostante il ripetuto successo che porta in cassa ancor di più di quanto si sperasse Sergio Grieco rompe il rapporto con Amati e la Fida.
Il regista ha ormai cinquant’anni quando gira questo film. Ne ha girati trenta in quasi vent’anni dall’esordio. Non ha guadagnato molto ma, puntando sulla quantità più che sulla qualità, possiede abbastanza di cui vivere dignitosamente.
Il suo ambiente è ormai quello, non ignoto a chi abbia vissuto nel cinema romano e romanesco ancora negli anni Ottanta, degli sceneggiatori che sfornano un copione a settimana, caratteristi di second’ordine, divette che aspettano il colpo grosso con un pretendente abbiente che le strappi dai pagamenti a cambiali, dai cinematografari assatanati, dalla perenne incertezza del settore.
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Ma Sergio Grieco  si sente ancora il ventenne che aveva frequentato l’avanguardia parigina e gli ultimi fuochi del grande cinema sovietico. E’ scontento, disilluso, ma non stufo di tentare, per un’ultima volta, un film d’autore tutto suo.
E’ in questo maturo fervore che nasce l’idea di realizzare Il sergente Klems alla cui genesi dedicherà due anni, sarà girato nel 1971 ed uscirà nel ’72.
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Il soggetto – dello stesso Grieco – è tratto da un controverso romanzo biografico di Paolo Zappa (1899-1957) scrittore e giornalista distintosi come intellettuale al servizio del fascismo sin dalla Marcia su Roma, direttore di testate importanti del ventennio nero, corrispondente viaggiatore innamorato dell’Africa e del mito della Legione Straniera su cui scrive un libro di successo tra una decina di titoli usciti tra il ’32 e i primi mesi del ’45.
A guerra finita su di lui pesa l’adesione alla Repubblica Sociale dove era stato capo ufficio-stampa delle Brigate Nere.
Nello stesso tempo lavora con Rizzoli, che già filtra con gli inglesi mentre omaggia i nazifascisti di Salò, e questo rapporto lo salverà dall’epurazione dopo qualche mese in cui rimane nascosto in un casale di campagna.

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Sembra che fu proprio Zappa ad aver ispirato il personaggio di Arcangelo Balducci, interpretato da Gianrico Tedeschi, in Il federale (’61), lancio di Ugo Tognazzi nel cinema di serie A come il fanatico e vulnerabile fascista repubblichino che, conducendo dall’Abruzzo a Roma un leader antifascista mentre la Capitale è ormai liberata, incrocia questo scrittore pavido e spaurito, rifugiato nel granaio della sua villa nell’alto Lazio.
Fatto sta che, con il viatico del cumenda milanese – il quale ben si guarda da pubblicarlo per la Rizzoli ma lo avvia alla Dall’Oglio – a liberazione avvenuta, nell’autunno del ’45, esce, riveduto e corretto, l’ultimo libercolo di Zappa – Tra i lebbrosi – che avrà, con lo stesso editore, diverse ristampe fino al ’77.
Stesso destino tocca a Il sergente Klems, effettivamente ispirato ad una storia autentica e originale, che, anch’esso riveduto e disinquinato dai cascami fascistoidi, incontra ben quattro riedizioni e raggiunge una certa fama come simbolico esempio di rifiuto di tutte le guerre, sebbene il mondo letterario non lo degni di attenzione.
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   Sergio Grieco ha già letto il romanzo quando le avventure africane del protagonista di Il sergente Klems sono improntate ad un ambiguo razzismo in chiave filoaraba ma soprattutto antifrancese.

Ma, nella versione del dopoguerra, trova invece il risalto, malgrado le intenzioni dello scrittore, uno spirito antibellico che, all’alba degli anni Settanta, si unisce al mito della lotta dei popoli del nord-africa per la liberazione dal colonialismo europeo.
In realtà, rileggendo la prima edizione, è più facile trovare il tentativo di Zappa di coagulare il mito della Legione con quello degli africanistas che, nel ’36, Francisco Franco guidò dal Marocco contro la legittima Repubblica Spagnola.

Inoltre, nel testo, vi sono chiari appendici a La Bandera (’31) di Pierre Mac Orlan che, con il film trattone nel ’35 da Duvivier interpretato da Jean Gabin, assunse i toni del destino fatidico al centro del realismo poetico dell’epoca.
In fondo anche Pierre Gilieth, legionario suo malgrado de La Bandera,  è un fuggiasco destinato ad espiare le sue colpe nel Tercio (la Legione Straniera ispanica), personaggio di perdente inseguito dalla colpa che Gabin si porterà dietro anche nel soggiorno americano con L’impostore (’43) ancora dell’altrettanto esule Julien Duvivier, recentemente uscito in Italia in un’ottima versione dvd.
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Ma quello che sta a cuore a Zappa è in realtà distruggere l’alone eroico che circonda la Legione in quanto francese, non in quanto corpo coloniale dalla discutibile disciplina interna che, in tempi più moderni rispetto alla stesura originale, diviene quasi la denuncia del militarismo più bieco.
Non dimentichiamo che, durante l’ultima fase della guerra in Francia, la Legione era stata autorizzata a varcare i confini della patria e combattere a sostegno della Resistenza nel sud del Paese, insieme a tunisini e algerini ai quali era stata promessa l’indipendenza in cambio dell’impegno nella lotta di liberazione.

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Lo scrittore, allora propagandista delle Brigate Nere, afferma infatti nella prefazione : “Molto è stato scritto di vero e di bene inventato sulla Legione Straniera francese e molto se n’è parlato.  Per i poeti e gli ingenui, in genere, essa rappresenta l’avventura, il mistero, il triplice salto mortale sovra un trapezio ce ha per spettatrici le stelle, le aurore violette, i tramonti infuocati. E per coloro che non sono poeti? La legione, vi diranno, è la cintura blu ai fianchi, la granata sul kepì e le mostrine verdi; e del caffè, del vino e dei piselli rotti; è della guerriglia e del sangue, del deserto e della nostalgia.
Nostalgia soprattutto ! Dopo quindici giorni i nuovi arruolati, difatti, non pensavano che a scappare. (…) Ma erano veri disertori questi legionari che lasciavano la caserma, il campo, il fortino?
No. Essi non facevano altro che ripetere a ritroso il cammino fatto un mese prima, l’anno avanti, quando avevano disertato la vita e fuggita la piccola guerriglia di una civiltà più alta”.
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Poi ammette che la vera storia del sergente Otto Josef Klems costituisce un’eccezione poiché il personaggio ha lasciato la Legione per vivere un’avventura particolare e per questo degna d’essere raccontata.
A ciò s’aggiunga un atteggiamento, nei confronti dei marocchini del Rif (i Riffani) che razzista e ambiguamente superioristica è dir poco.
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Ma che Sergio Grieco, uomo di sinistra che si è sentito sradicato dal mondo intellettuale di cui aveva fatto parte da giovane per la legione straniera del cinema europeo di genere e di coproduzione, la storia di Klems ha un sapore autobiografico e nel contempo aderente allo spirito del momento storico e politico.
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Otto Josef Klems non è nemmeno il suo vero nome. E’ un soldato tedesco qualsiasi, perduto nelle trincee dell’Artois che, coperto di fango in una notte qualsiasi in cui i cannoni tacciono, indossa la divisa di un militare francese trovato morto in un fosso.
Giunto oltre le trincee incontra un legionario di origine tedesca, Klems appunto, che, prima di morire, lo convince ad assumere la sua stessa identità, quella di un soldato della Legione di origine tedesca ma combattente per la Francia.

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Finita la guerra Klems, come ora si chiama, viene inviato nel Guercif (Marocco) a combattere i ribelli guidati da Abd-El-Krim, leader degli indipendentisti del Rif.
Come nel libro il personaggio, in crisi psicologica e anche sessuale per non sapere più quale sia la sua autentica personalità, diventa preda di un ufficiale omosessuale che lo promuove sergente sperando di conquistarlo ai suoi favori.
Solo alla fine del primo anno di leva, disgustato dai metodi interni della Legione e dall’atteggiamento sprezzante dei legionari nei confronti degli arabi anche fedeli alla Francia, riuscirà ad allontanarsi dalla torbida figura al quale comunque deve i gradi.
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Fuggito dalla Legione finisce con il legarsi proprio a Abd-El-Krim, intraprende un rapporto con una giovane ragazza – Leila – che poi sposerà secondo il rito musulmano, e diviene un capo sua volta, chiamato Abd-El-Hadj-Alemàn, per la sua conoscenza delle tattiche belliche europee e degli armamenti che i riffani (che poi sarebbero i berberi) riescono a sottrarre ai francesi ma non sanno usare.
Quando costoro (guidati da Philippe Petain, già maresciallo di Francia) si alleano momentaneamente agli spagnoli per sferrare un attacco concentrico e sistematico ai ribelli, Abd-El-Hadj-Alemàn, individuato come un bianco tedesco traditore della Legione, diviene il nemico principale degli europei per l’abilità con cui sa evadere dalle strategie degli eserciti coloniali e condurli a notevoli sconfitte.
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Ma, stremato dalla guerra e convinto di non poter resistere oltre al prezzo di troppi massacri, Abd-El-Krim si arrende (1926) e i francesi lo esilieranno dalla sua terra per sempre.
Klems,  ora El-Hadj-Alemàn, non demorde e conduce un gruppo di irriducibili con le famiglie e sua moglie a inoltrarsi nel deserto.
Si da alla guerriglia diventando una spina nel fianco delle truppe franco-ispaniche che però finiscono inevitabilmente col prevalere in forza di seicentomila uomini e massicci armamenti, carrarmati e soprattutto areoplani che sorvolano i territori e individuano tutte le bande ribelli.

E’ proprio un audace pilota che, a bordo del suo biplano, individua il gruppo e lo stermina con la mitraglia. Moriranno tutti compresa Leila e il figlio nato da pochi giorni.
Klems è l’unico a scamparla riuscendo a fuggire tra le sabbie.
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Raggiunte le ultime truppe di cavalieri berberi, al protagonista non resta che guidare una carica suicida.

Ma, ferito e scalzato dal cavallo, viene catturato, riconosciuto e portato alla corte marziale.
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Durante il processo, che nel film non si vede, Klems è condannato alla fucilazione per diserzione e alto tradimento ma, a causa della sua fama nel Marocco e ad una campagna pacifista organizzata a Weimar che aumenta la sua notorietà a dismisura, Petain, per non farne un martire, commuta la pena e lo spedisce all’ergastolo in Guyana dove, stroncato dal clima e dalle malattie, muore col nome di forzato n°52342, e questo numero sarà segnato sulla sua croce di legno nel cimitero nella palude degli sconosciuti.
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Secondo altre fonti Klems,  al tempo del processo esaltato da Jacques Doriot e Maurice Thorez su L’Humanité, fuggì dalla Guyana e, al termine di un periodo oscuro nella Germania nazistificata, divenne un ladruncolo e un alcolista; infine fu arrestato per un piccolo furto e si suicidò in carcere nel 1939.

L’evento originò altre ipotesi. Il suicidio infatti sarebbe sembrata la soluzione per far dissolvere nella memoria pubblica un antieroe scomodo che pur aveva rappresentato la lotta al colonialismo.
Ma questa tesi è confutabile. Anche le potenze democratiche praticavano il dominio in Asia e Africa. I belgi, considerando loro proprietà privata il Congo, continuavano a tagliare le mani ai loro schiavi di colore. I francesi pretendevano che lo stipendio di un bianco equivalesse a tre volte quello di un indigeno in Algeria e in Indocina.
Gli statunitensi, in America latina come nelle Filippine, avevano compiuto crimini che oggi sarebbero definiti contrari a qualsiasi principio umanitario.
Di certo si sa che solo El-Krim (1882-1963) autentico e leggendario capo della tribù berbera degli Ait Ouriaghel, deportato anch’egli ma su un atollo sperduto nell’arcipelago delle Isole Vergini, riuscì a fuggire a bordo di un mercantile, sbarcò ad Alessandria d’Egitto e divenne un leader della moderna causa indipendentista tanto da dar fastidio, con la sua presenza, allo stesso Nasser.

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Sergio Grieco, regista di tutti i generi, trova in Klems, o come si chiama di volta in volta, la propria raffigurazione epica. Vorrebbe che il film fosse la sua vendetta contro il destino o l’equivalente della carica sucida nel deserto.
A impersonare questa nemesi verrà chiamato Peter Strauss, allora famosissimo come il giovane soldato sperduto nelle guerre indiane di Soldato Blu (’70), che, allora ventiquattrenne, conferisce al protagonista un ardore giovanile non privo di sottintesi ambigui, torbidi, contradditori.
Disertore o soldato coraggioso, uomo integro e idealista o personalità disintegrata già dalla prima guerra da cui emerge senza nome ?

Grieco non risponde mai a queste domande. Egli sa come, nelle scelte della vita, giocano tanti fattori contradditori e il Soldato senza nome ne è un manifesto taciturno, ora ritroso ed ora rabbioso, introverso e capace di indignazione quanto di rancore ai limiti della crudeltà.
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Su tutto questo film, girato in Spagna e Marocco con gran uso di mezzi e masse di eserciti africani ed europei, grava comunque il sentore che la prima sensazione di Klems, l’avversione verso la guerra di cui non capisce alcuna ragione plausibile, sia anche la sua maledizione.
Infatti, quando egli decide di divenire un combattente berbero e rinunciare alla sua identità precedente, del tutto annullata col matrimonio e il battesimo del figlio celebrati con i riti delle tribù del deserto, non è mosso da alcuna intenzione eroica ma soltanto dalla necessità di trovare una luogo che sia suo, un nome che possa portare riconosciuto come tale.
Nella sua frugale idealità riconosce il diritto alla ribellione dei berberi ma non si capirà mai del tutto se per convinzione profonda o sdegno nei riguardi della Legione e dei suoi rituali inumani conditi da falso senso dell’onore e del cameratismo.
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In questo senso, non avendo voluto fare del protagonista un eroe a tutto tondo ed aver analizzato la ribellione delle tribù solo come un anticipo perdente delle lotte indipendentiste per cui Abd-El-Krim sa che il suo popolo non è ancora maturo, Sergio Grieco ha tracciato, con Il sergente Klems,  un percorso narrativo degno di una realizzazione estrosa, quasi stravagante, in cui il regista usa strumenti visivi diversi e compositi.
Non vi sono mai inquadrature puramente classiche. La macchina da presa si muove intorno ai personaggi ora con uno studio dei corpi e dei primi piani ed ora come un volteggiare alla ricerca del segno tecnico sul paesaggio, esemplificato dalla visione ora di Klems ed ora di Abd-El-Krim ripresi in campi lunghi, facendo perderli nella confusione del popolo in armi e degli eserciti pronti all’attacco.
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E’ ingrato chiedersi come, alla sua uscita, questo film fu ignorato da pubblico e critica.

Il produttore – Francesco Mazzei – lasciò la troupe priva di finanziamenti a un quarto dalla fine delle riprese. In seguito la distribuzione Panta cercò di sollevare Il sergente Klems con una buona campagna pubblicitaria.
Ma, alla fine, nonostante la visione negativa della Legione, ebbe più richiamo in Francia che in Italia dove, amputato di 20 minuti dei 127 originali, circolò pochissimo e non si giovò certo di recensioni implacabili che poi alcuni estensori di dizionari  hanno rimarcato.
Nemmeno in questa sua avventura di riscatto Sergio Grieco è diventato un regista da riscoprire, almeno per questo film, al contrario di tanti colleghi indegni di attenzioni immeritate e confutabili retrospettive.
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Certamente non è un film per il pubblico a cui il regista era abituato a rivolgersi.
L’inizio, in bianco e nero, raffigura da subito le trincee come un inferno oscuro. Il primo contatto con il confuso Peter Strauss che entra nel campo francese, apparentemente agevolato da una fotografia a tratti lucida e luminosa e a tratti sporcata nei toni di Stelvio Massi, è subito segnato dalla scarsa simpatia dell’esercito regolare per i legionari che, provenendo da tutti i paesi e privati di identità nazionale, potrebbero essere traditori infidi ed elusivi.
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Una linea narrativa, che a tratti sembra esplodere e a tratti si interrompe lasciando interdetto lo spettatore, è quella della sessualità che, pur nelle retrovie della vicenda, ha un senso di ambiguità che il regista ha voluto lasciare nell’incertezza.
Il protagonista subisce le attenzioni del tenente omosessuale ma, quando si presenta la vera moglie di Otto Josef Klems (Luciana Paluzzi) lui, invece di aderire alle sue proposte di ricostruire una vita insieme nel deserto e a un chiaro richiamo dei sensi, rifiuta come se le esperienze vissute l’avessero castrato.
L’elemento della castrazione è presente in altri due casi.
Nel sergente Granval (Giuseppe Castellano) che è stato mutilato dai berberi ma continua ad andare al casino coi camerati osservando le loro effusioni con le prostitute, anch’esse viste come deportate dal paese d’origine, prigioniere dell’Africa e della loro sciagurata professione.
Quando Klems, ormai divenuto Abd-El-Hadij-Alemàn, per sfuggire ad una prima cattura, corre nudo nello spiazzo del fortino e dice ai francesi di essere stato privato della divisa come prigioniero.
E questa nudità subitanea, improvvisata per ingannare i suoi ex compagni di Legione, ha qualcosa di incompiuto e provocatorio, proprio come la presenza della seducente e dichiaratamente accessibile Luciana Paluzzi.
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I particolari psicoanalitici si moltiplicano nel rapporto con Leila (Fatma nel romanzo e forse, come vedremo, anche nelle versioni straniere del film) per cui Klems nutre più affetto che passione data la giovane età della ragazza (Tina Aumont) e mostra il figlio come il trionfo della sua identità di leggendario capo ribelle più che come frutto di un amore.
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Non mancano riferimenti storici curiosi.
Oltre al maresciallo Petain, il futuro capo della Repubblica collaborazionista di Vichy, appaiono un generale spagnolo (interprete non identificato) che allude proprio a Franco, il futuro dittatore spagnolo, e una giornalista-fotografa (Rossella Como) che è ispirata chiaramente a Leni Riefenstahl nei suoi viaggi ai tropici dove la regista hitleriana si spacciava per antropologa documentarista.
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Purtroppo – ed è questo il difetto vero del film, certamente notato alla sua uscita dai vice di tutti i quotidiani – la produzione si avvale di una troupe tecnica assai valida : Massi alla fotografia che sembra dovesse essere affidata a Marcello Gatti che rifiutò a causa degli orari massacranti difendendo sindacalmente la sua stessa equipe come aveva già fatto su altri set; Rustichelli alle musiche; Dario Micheli ed Elena Ricci Poccetto alla scenografia; Mario Giorsi ai costumi.
Valida ma ben poco esperta dell’argomento.
I legionari sono presentati con i capelli lunghi, anche troppo lunghi, e la barba sfatta, le divise stropicciate e aperte sulla pancia, cosa impossibile nella Legione dove vigeva il taglio a zero e l’assoluta cura dell’aspetto fisico e dell’uniforme (che spesso è bianca mentre, negli anni venti, era stata gradualmente sostituita con quella cachi) e gli arabi non sempre indossano vestimenti autentici.
Del resto sono interpretati da attori italiani come Pier Paolo Capponi quale Abd-Krim e Howard Ross – alias Renato Rossini – come Hamed, un supplementare tra i legionari legato da un rapporto di amicizia con Klems che questo scarso attore di fortuna carica di ambiguità nonostante il doppiaggio di Luciano De Ambrosis.
E il regista non sembra accorgersi del furoreggiare sullo sfondo della legione straniera sì ma del cinema italiano a basso costo : Franco Ressel, Massimo Righi alias Max Dean, Pasquale Basile, lo stesso Castellano, un Peter Berling che sembra arrivato direttamente ubriaco dai tavoli esterni di una vineria di Trastevere, e lo stesso Howard Ross.
Il punto più basso si tocca nell’inadeguata Rossella Como, allora molto nota in tv in ruoli anche riusciti, la quale indossa abiti troppo larghi e un casco coloniale che rimpicciolisce il viso di un personaggio che avrebbe dovuto mostrare tutta la sua alterigia nel dialogo secco che ha con Klems/Hadj-Alemàn sulla comune origine teutonica.

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Ci si domanda se Grieco, abituato a cast anche peggiori, non si sia concentrato sul protagonista e su Capponi (anche lui, come ottimo attore di teatro, allora assai presente nella prosa Rai) tralasciando un arruolamento più confacente, forse per ragioni di costi iniziali che però la presenza di migliaia di comparse smentirebbero.
Certamente questi errori, visibili anche allo spettatore medio allora svezzato da troppi western girati nel Lazio con le più inadatte e dilettantesche personificazioni, hanno contribuito al giudizio frettoloso ed esiguo della stampa quotidiana.
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Ma Il sergente Klems resta un film di valore.
Proprio per le sue componenti elusorie ed eterogenee è un’opera degna di essere vista e anche studiata poiché, in ogni caso, si colloca tra le pochissime produzioni italiane che affrontino dal di dentro e senza falsi pudori il tema del colonialismo e della lotta per l’indipendenza dell’allora detto Terzo Mondo.
E la sua riuscita artistica, proprio per le mancanze sopra sottolineate, supera di gran lunga gli aspetti meno decorosi e stimola un giudizio indulgente.
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Dopo questo film, dall’estate del ’72, anche a Sergio Grieco toccava la sua Guyana.
Sette film d’imitazione con esiti poco felici.
Il western parodistico Tutti fratelli nel West da parte di padre (con Antonio Sabàto e Marisa Mell); Le scomunicate di San Valentino (’74) dal filone delle monache indiavolate; La nipote del prete (’76)  – con la modella Cristina Amodei qui come Crippy Yocard nota nell’ambiente per aver fatto la controfigura della valletta Sabina Ciuffini nelle scene di nudo del suo unico film  – commedia erotica di nessun richiamo che non salva nemmeno Marco Giusti nel suo dizionario del genere, notando la pruriginosa frase di lancio prima dell’uscita milanese in pieno luglio.
Segue Il signor Ministro li pretese tutti e subito (’77) altra commediaccia da quattro soldi – con le veterane Orchidea De Santis e Susanna Martinkova, arrivata dalla Cecoslovacchia e poi ritiratasi dignitosamente come moglie di Gianni Garko – che fu l’ultimo lavoro del regista che qui per pudore si firma Sergio Alessandrini.
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Tra queste brutture vanno però segnalati ai cultori i tre polizieschi che, come accadde anche ad altri registi, trattando storie in ambientazioni strettamente contemporanee e urbane, Grieco girò con maggior estro.
    I violenti di Roma bene con Sabàto che da la caccia ad una banda di assassini fascisti di Piazzale delle Muse, da una sceneggiatura del giallista impegnato Massimo Felisatti; L’uomo che sfidò l’organizzazione con Stephen Boyd  all’inseguimento di Howard Ross trafficante di droga insieme a Karin Shubert non ancora discesa nell’inferno del cinema porno; La belva col mitra – decisamente il più originale – con Helmut Berger nei panni di un criminale patologico e assassino senza scrupoli anteposto ad una società marcita e farisaica, incapace di opporsi eticamente ad una crudeltà che è un suo prodotto finale.
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La belva col mitra è, di fatto (girato poco prima del Signor Ministro…) l’ultima regia, con qualche guizzo, di Sergio Grieco.
Ma anch’esso, girato con poche lire e in una decina di giorni come gli altri, uscì direttamente, come gli altri, nelle visioni periferiche, in piena estate vacanziera.
Ne esiste una copia in dvd inguardabile. Ripassata da un vhs danneggiato; perduta gran parte della sonorizzazione; le musiche, realizzate in massima economia adattando motivi corrivi, subiscono un innesto di frastornanti sottofondi apocrifi che coprono i dialoghi di attori pur inappuntabili come Claudio Gora e sua figlia Marina Giordana.

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Dopo queste ultime imprese di cui certo non andava fiero, Sergio Grieco si ritirò in campagna dove visse per soli cinque anni in pace.
Morì, a sessantacinque anni nel 1982, durante la degenza in un ospedale romano dove si era recato per accertamenti.
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Anche la copia di Il sergente Klems, l’unica che circola sulla rete con dialoghi italiani, è stata certamente rimaneggiata.
Mai ritrovata la copia originale depositata alla Cineteca del Centro Sperimentale, è probabilmente ricavata da una versione per l’estero come si evincerebbe dai titoli, dalla durata, e dallo stato della pellicola probabilmente usata per un’uscita quasi clandestina in videocassetta di cui si sono perse le tracce cronologiche.

Solo sul sito CinemaItalianoDataBase ne esiste una descrizione accurata e rispettosa dove si ricorda l’omaggio di Quentin Tarantino, purtroppo sedicente cultore di tante boiate immeritevoli, a La belva col mitra che Robert De Niro guarda in tv in Jackie Brown.
Ci vorrebbe un restauro.
Ma ricordiamo che, tra tanti costosi ripristini di film più o meno interessanti, esistono capolavori assoluti dal muto al sonoro per cui nessuno pensa di spendere un soldo e giacciono in colpevole noncuranza.

Il destino paludoso de Il sergente Klems  tocca ancora a troppe pellicole a cui non è stato sottratto il nitrato d’argento.

 

 

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