“Una vita in fuga” di Sean Penn

di Aldo Viganò.

Nel corso della sua intensa carriera cinematografica (più di cinquanta film come interprete quasi sempre protagonista e sei lungometraggi e un corto come regista), l’ormai ultrasessantenne Sean Penn ha dimostrato non solo di possedere ottime e stabili qualità attoriali, ma anche di cedere a non sempre ben riposte ambizioni autoriali, tendenti, come egli cerca sovente di voler fare, a mescolare lo sperimentalismo visivo del New American Cinema dei primi anni Sessanta, da lui conosciuto in lunghe sedute in cineteca, con i modelli classici visti in azione sui set di molti registi (alcuni veramente grandi) con i quali ha avuto occasione di lavorare.

Da questa divergenza d’interessi è nata, forse, quella tendenza di Sean Penn a mantenere sino ad oggi completamente separate le sue due carriere (egli non aveva sinora mai fatto l’attore in un film da lui stesso diretto), le quali trovano però ora il modo di convergere (grazie anche alla collaborazione con il drammaturgo britannico Jez Butterworth e suo fratello John-Henry) in Una vita in fuga che, pur essendo tratto da un libro scritto da altri (la giornalista Jennifer Vogel) e che sfoggia subito la didascalia “da una storia vera”, ha tutto l’aspetto di un’opera autobiografica personale, se non altro perché chiama direttamente in campo – in un racconto incentrato sui rapporti tra una figlia ribelle e un padre scapestrato che entra ed esce di continuo dal carcere – i due rampolli, oggi ormai trentenni (da lui avuti con Robin Wright, la sua seconda moglie): la fotomodella Dylan, promossa subito protagonista, e l’esordiente Hopper Jack, qui impegnato nel ruolo del fratello della sua vera sorella.

Ma l’autobiografismo è solo uno degli spunti narrativi di un film molto più ricco e articolato, che non esita a chiamare in causa anche realtà molto più complesse di una storia solo privata, quali il degrado di una società in trasformazione e la latente violenza che questo degrado percorre, nonché i sensi di colpa che l’attraversano e le possibilità di riscatto che pur questa società continuamente offre.

Troppi temi? Probabilmente sì. E anche per questo il film che ne deriva sovente (soprattutto all’inizio) bascula nell’incertezza di scegliere il tono e le modalità più opportune per metterli in scena, ma infine sembra saperli trovare proprio nella classicità del conflitto tra i due personaggi protagonisti (ma anche tra le altre situazioni, sia pubbliche o private che fanno loro di contorno) a volte troppo simili per non litigare, ma anche troppo diversi per non risolvere anche in modo diametralmente opposto le loro reciproche difficoltà esistenziali.

Ed ecco, quindi, che mentre il padre (il solito, ottimo, Sean Penn attore) non può evitare che la propria fuga dalla sempre negata “normalità” non possa che finire tragicamente fuori strada (con il corollario, come vuole il copione, del suidicio), è lei, la ragazza ribelle, che infine trova un posto in quella società che pur detesta, trovandosi quasi per caso ad assistere in televisione all’atto finale della vita di suo padre, in un momento di successo della sua non programmata carriera di giornalista investigativa.

Come si diceva (e come sovente accade al Penn regista), il film è molto lento a carburare e sembra disperdersi in troppe divagazioni (la madre e i suoi amanti, le compagne del college, il fratellino e la ricerca di un lavoro, anche i periodici ritorni a casa del padre in libertà vigilata), ma poi, soprattutto nella seconda parte, qualcosa finalmente inizia ad assestarsi anche sul piano stilistico e, attraverso la resa dei conti frontale tra i due protagonisti tutto il film sembra riprendere quota, ricompensando infine la pur lunga attesa dello spettatore, il quale viene guidato verso una sorta di pur tragico happy end, certificando, soprattutto nella efficace messa in scena delle conversazioni sempre più ravvicinate al bar o in un bitrot quel processo di reciproca comprensione e accettazione di cui anche le incertezze stilistiche del Penn regista dimostrano infine di essere stato sempre in cerca.

 

 

 

 

Una vita in fuga

(Flag Day – USA, 2021) regia: Sean Penn – dal libro di Jennifer Vogel – sceneggiatura: Jez Butterworth e John-Henry Butterworth – fotografia: Daniel Moder – musica: Joseph Vitarelli – scenografia: Craig Sandells – costumi: Patricia J. Henderson – montaggio: Michelle Tesoro e Valdís Óskarsdóttir.  interpreti e personaggi: Sean Penn (John Vogel), Dylan Penn (Jennifer Vogel), Josh Brolin (zio Beck), Norbert Leo Butz (Doc), Dale Dickey (nonna Margaret),  Eddie Marsan (sig. Emmanuelle), Bailey Noble (Debbie), Hopper Jack Penn (Nick Vogel), Katheryn Winnick (Patty Vogel). distribuzione: Lucky Red – durata: un’ora e 49 minuti

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