Enzo Natta – Il decano informale

di Teresio Spalla.

Il 14 dicembre dell’anno appena terminato, nel primo pomeriggio di un giorno senza sole, mentre si apprestava alla consueta lettura dei quotidiani, si è addormentato e, in un sonno certamente tranquillizzante, si è spento, in pace con se stesso e con gli altri, Enzo Natta.
Aveva 88 anni ma, nemmeno in questi mesi così difficili per lui, li dimostrava.
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E’ morto un uomo a cui il cinema italiano deve molto di più di quanto, oggi come oggi, sappia anche chi ne fa parte.
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Era nato ad Oneglia (una delle due città che formano il capoluogo ligure di Imperia,  creato nel ’23 da Mussolini in persona e da lui, onegliese imperterrito, considerato  una “mera espressione topografica”) nel centro del centro storico.
Veniva da una famiglia di gente che aveva lavorato tutta la vita in una piccola bottega; e da essi  gli derivava certamente il carattere notoriamente affabile, cortese, conciliante, non a caso messo alla prova in incarichi importanti di capo ufficio-stampa di enti pubblici e privati;  e personaggio dai tanti interessi tutti convergenti nell’attività di critico, storico e giornalista, scrittore.
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Dopo aver frequentato l’Università a Genova, si era trasferito a Roma ed era divenuto, da subito, un giornalista di cronaca e commentatore di fatti storici piuttosto ricercato, passando da Il Giornale d’Italia al la cronaca locale de Il Messaggero.
Già da allora, negli anni Cinquanta del centrismo e della Chiesa osteggiante il cinema di autori appena appena fuori sincrono, Enzo si fa notare come critico appassionato e privo di pregiudizi su quella che era allora la più importante delle pubblicazioni cattoliche di settore – La Rivista del Cinematografo –  emanazione dell’Ente dello Spettacolo – creatosi  nel ’45 dall’unione dei Centri Cattolici cinematografico, teatrale e radiofonico, sotto la guida di Luigi Gedda, il famigerato capo dei Comitati Civici – ma diretto in effetti da Ugo Sciascia, cattolico sì ma di maggior apertura culturale e di vasti interessi artistici come dimostrò poi in televisione, alla Rai fino agli anni Settanta.
E’ proprio Sciascia a voler valorizzare questo giovanotto il cui impegno non è attiguo a quello di altri che temono, violando le costumanze censoree, di compromettere la propria carriera.
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Enzo quindi non solo diventa un redattore di punta della rivista – e di molte altre in quel tempo – e si lega ai critici che, insieme a lui, porteranno presto l’aria nuova del Concilio di Papa Giovanni : Francesco Bolzoni, Ernesto G.Laura primi tra tutti, Camillo Bassotto e Michele Serra, Giacomo Gambetti e Virgilio Fantuzzi, Alberto Pesce, Nazareno Taddei, Sergio Trasatti (che dirigerà anch’egli la testata), Paolo Valmarana, Mario Verdone.
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Tra questi c’è don Claudio Sorgi, prima redattore e poi direttore della rivista negli anni del disgelo, ed è insieme a lui che Enzo Natta apre a registi di ogni visione, sulla base, tipica della critica anche non inquadrata di allora, della difesa e diffusione del cinema di qualità.
Sorgi, in seguito, seguirà una carriera diversa nelle strutture della Chiesa. E’ quindi Enzo, sempre Enzo, a spingere la rivista, almeno fino a che gli riesce, verso un dialogo che è distribuito su diversi fronti : con i registi e gli sceneggiatori, i produttori e gli esercenti, gli intellettuali di altra formazione, gli intellettuali che sono già dissenzienti rispetto agli atteggiamenti tradizionali verso il cinema come don Fantuzzi e padre Taddei, Bolzoni e Laura.
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Definire l’Enzo Natta, di allora e di dopo, un fromboliere e un ribelle, sarebbe però un errore.
Lui sapeva essere cauto. Del resto, se non stato un ottimo diplomatico, non sarebbe stato l’efficiente comunicatore che era e sarà.
Dotato di una capacità di parlare e scrivere in modo fluido e scorrevole, chiaro e limpido, riusciva, anche nei casi meno predisposti, a non offendere quella parte del suo settore da cui avrebbe potuto avere dei problemi, nonché instaurare buoni rapporti con tutti coloro i quali, lo sapeva, non lo approvavano o temevano, approvandolo, di perdere posizione sui loro quotidiani o all’interno della Rai.
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Allo stesso modo egli iniziò a mantenere rapporti di collaborazione, anche stretti, col mondo laico e socialista-comunista (quello s’intende nella cultura in generale e nello spettacolo in particolare) e da cui nacquero iniziative importanti, convegni e collane di libri, all’insegna di rapporti solidali, franchi e concordi.
In questo senso lo aiuta la carica presto ricevuta di critico a Famiglia Cristiana che la proprietà, i frati Paolini e in particolare il direttore Leonardo Zega, avevano trasformato in una pubblicazione di notevole apertura per i tempi e, nel contempo, capace di vendere fino a due milioni di copie a settimana grazie alla diffusione parrocchiale oltre a quella nelle edicole.
E’ un ruolo, quello di Enzo, che gli permette di aprire a cineasti fino allora invisi, da Pasolini a Visconti, da Fellini ad Antonioni, agire sullo studio di Bergman, di Glaubert Rocha e dei cineasti emersi dalle tante nouvelle vague esplodenti in tutto il globo.
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La posizione, che tiene anche su numerose altre pubblicazioni, si consolida nelle sue rubriche proverbiali alla Radio Vaticana e sia in Radio che in Tv per la Rai, e si rafforza quando, difendendo così la sua libertà di pensiero, entra nel Cinema Pubblico, potendo quindi contare su una tranquillità professionale derivante dall’essere nominato capo ufficio-stampa dell’Italnoleggio (ente distributivo derivato dall’Istituto Luce) e poi di Cinecittà (produzione, gestione teatri di posa) fino all’Ente Gestione Cinema che riunisce Cinecittà, Luce e Italnoleggio.
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All’Italnoleggio, dove si avvicendano due direttori marcatamente di sinistra – Giancarlo Zagni e Mario Gallo – egli non si limita al suo ruolo ma attivamente contribuisce ad una politica di sostegno alle produzioni del Falstaff di Orson Welles, Il Dio Nero e il Diavolo Biondo di Rocha, Dillinger è morto e L’Udienza di Marco Ferreri, La Caduta degli Dei di Visconti fino a Lettera  aperta a un giornale della sera di Citto Maselli.
Verrà poi, già presente in svariate diatribe interne, la lottizzazione ad impadronirsi dell’ente e così finisce la politica verso gli autori esordienti e quella verso i film meno facili provenienti dai paesi dell’Est Europa, dall’America latina e altre zone del pianeta la cui arte della visione è sconosciuta al pubblico italiano.
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Quando iniziai a frequentarlo, sia umanamente che professionalmente in un sodalizio che sarebbe durato più di quarant’anni, era ancora a Cinecittà ma presto sarebbe andato all’Ente Gestione Cinema dove il suo ufficio, negli anni Ottanta e Novanta, fu un punto di aggregazione ben conosciuto nel cinema italiano.
La palazzina dove aveva sede si trovava subito a destra, entrando dall’ingresso principale. Era semplice, allora, accedervi, anche per chi non possedeva la tessera professionale.
Lì potevi trovare i personaggi più disparati: da giornalisti in cerca di notizie interessanti, cinematografari in difficoltà che chiedevano aiuto per i loro film da fare,  produttori in auge e in disgrazia, ma soprattutto ottimi intellettuali di ogni genere che ricoprivano un ruolo nelle strutture stesse o si recavano sul posto per partecipare ad incontri e dibattiti informali, mai preparati a priori, spesso destinati a terminare nella mensa o al ristorante all’interno degli stabilimenti.
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Per dare un’idea del livello anche creativo nato dall’ospitalità di Enzo, un giorno, a metà anni Novanta, in conseguenza di una conversazione già frizzante in ufficio, alla mensa scoppiò un’accesa discussione su quei film che trattano del rapporto tra aguzzino e vittima nei campi di sterminio.
Io ed altri sostenevamo che, a dispetto di titoli ben più famosi, l’esempio più acuto e di alto livello è La Passeggera, ultimo e incompiuto capolavoro di Andrzej Munk.
Maurizio Ponzi – già cineasta ma non dimentico di un passato di critico severo e autore intellettuale – si trovava lì con parte della troupe di una pellicola che stava girando e, con passione, si alzò dal desco per sostenere un parere che condivideva.
In breve una piccola folla di frequentatori del luogo attorniò il tavolo e la diatriba, destinata a finire in un’amichevole brindisi tra tutti, si giovò di un pubblico interessato ed avvinto.
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Gli anni in cui Enzo guidò l’ufficio-stampa dell’Ente Cinema furono quelli in cui la sua personalità consolidò maggiormente la fama di voce cristallina di un cinema cattolico senza censure (benché casi di netta chiusura ce ne furono anche in quel tempo, favoriti da chierici zelanti in cerca di notorietà) e spalancato al mondo in nome della purezza delle intenzioni di un cinema che puro non fu mai ma certo migliore di ciò che, a poco a poco, stava divenendo.
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Divenuto presidente dell’Ancci, l’associazione di circoli del cinema legata all’Acec (organizzazione degli esercenti cattolici e delle sale della Comunità), egli impostò una collana di volumi che, insieme a quelli editi dall’Ente dello Spettacolo di Trasatti, formarono il più luminoso esempio di editoria cattolica assolutamente propensa ad ogni genere di studio su ogni tipo di autore o di cinema.
Se a me fu dato di inaugurare la collana – dal titolo Studi e Ricerche – essa trovò, tra tanti preziosi testi, l’apice con L’Immagine Bugiarda, studio esaustivo mai realizzato prima sul cinema di Salò, scritto da Ernesto G.Laura, un libro indispensabile a chiunque voglia conoscere a fondo  aspetti reconditi di un mondo, quello del Cinevillaggio di Venezia, strettamente legato tanto alle brutture repubblichine quanto al cambio di giacchetta di tanti che non finirono lì solo per caso.
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Nello stesso tempo Enzo Natta fondò Filmcronache, rivista dall’aspetto apparentemente leggero e tascabile, dove però hanno trovato posto saggi di alto livello, riscoperte preziose, gli esordi nella critica di futuri studiosi, autori, docenti.
Enzo non sbatteva in faccia la porta a nessuno. Del resto nessuno che gli potesse essere avverso avrebbe osato chiedergli di collaborare.
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La domanda che il lettore si potrebbe ora chiedere è prevedibile.
Come fu possibile che, durante il pontificato dichiaratamente anticonciliare di Woityla, quando lo stesso Papa raccoglieva le forze che s’erano messe all’angolo sotto Roncalli e Montini, nei riguardi del cinema vi fosse un tale stato di democrazia interna sia agli enti cattolici ma anche portata al di fuori di essi, nelle parrocchie come nei luoghi apparentemente più estranei?
E, proprio sotto Woityla, la parte più decisamente reazionaria della Chiesa si limitava davvero a gestire la censura per qualche film ogni tanto – tipo quella voluta attorno a Passion di Godard per ricordare un esempio saliente – e non aveva più voce in capitolo?
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Intanto è necessario ricordare che, se Enzo Natta poté rinforzare l’apparato cattolico intorno al cinema e farne una sede di libertà (mentre la crisi delle sale, la chiusura endemica di tanti esercizi, coinvolgeva necessariamente anche i circuiti parrocchiali e dell’Acec) per ragioni che mi sono sempre rimaste misteriose (ma avrei dovuto far parte interna anch’io, laico e non credente, che pur qualcosa di quel mondo ho potuto conoscere assai bene, ma mai abbastanza) il Papa non se ne interessò.
Tant’è vero, per stabilire un esempio che vale per i quindici anni a venire, nel 1984, quando fu presentato il mio primo libro – scritto in assoluta libertà, con cui inauguravo appunto la collana Studi e Ricerche di Enzo Natta – ciò avvenne in una sala di proprietà vaticana, a Borgo Sant’Angelo, dove poi seppi che Woityla stesso si recava a vedere i film suggeriti dai suoi consiglieri, e l’unico relatore cattolico, per altro di raro anticonformismo, fu Bolzoni (allora critico di Avvenire) insieme a Callisto Cosulich (ex critico di Abc  e allora a Paese Sera, quotidiano in forza al Pci) e Claudio G.Fava, nota figura televisiva, socialista appena promosso a dirigente di Rai Due col voto decisivo dei rappresentanti comunisti nel Consiglio d’Amministrazione.
Alla folla di quel giorno (erano comunque tempi ancora buoni per il cinema classico che, scomparso da poco, era rimpianto attraverso mille visioni sui canali pubblici e privati, nell’editoria in grado di raccogliere attenzione e lettori numerosi in un clima oggi impossibile) dal giorno dopo fecero eco tutti i quotidiani e tutte le riviste popolari e schierate italiane;  pubblicarono recensioni, ampie segnalazioni, e qualche giornale dedicò un’intera pagina a quel libro di un giovane sconosciuto o quasi, edito da una casa editrice appena nata.
Seguirono al mio una trentina di volumi fino alla prima metà degli anni Duemila.
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In parte un atteggiamento tale verso il cinema può essere accreditato al cardinal Poupard – responsabile dei rapporti col mondo della cultura oltre che di quelli con i non credenti – e monsignor Planas – responsabile della filmoteca vaticana e di fatto l’uomo dei rapporti diretti col cinema e la tv in Italia.
Erano personalità che venivano da esperienze legate al Concilio, vissute nel centro e sud America.
Planas era stato amico e collaboratore del vescovo Romero, ucciso dai fascisti di San Salvador nell’80.
Tutti e due non solo tolleravano ma apprezzavano un legame tra Chiesa profonda e autori anche apparentemente opposti.
Però, bisogna chiarirlo, questi due personaggi entrano in gioco quando le porte sono già state aperte proprio da Enzo Natta oltre che dagli altri intellettuali cattolici e sacerdoti citati tra i quali lui primeggia e valorizza, ristruttura e solidifica, rivede e costruisce.
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Quando poi cambiò Papa, cambiò la direzione delle strutture cinematografiche vaticane.
Allora le cose mutarono e si arrivò anche a scoprire personaggi, fino ad allora taciti e senzienti, che, in occasione dei governi berlusconiani con la destra appena depurata in apparenza dai trascorsi neofascisti, intavolarono immediatamente rapporti con quest’ultima,  come accadde nella gestione di enti e strutture e naturalmente alla Rai.
Non saprei dire se anche nuovi personaggi, apparsi a me allora nel contesto, siano stati responsabili di quanto detto o abbiamo semplicemente raccolto l’idea che tutto ciò di cui ho esposto sinora andava, in un modo o nell’altro, soggetto a revisione completa.
Però questo accadde.
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Questo accadde. Non si trattò di una vera e propria involuzione a destra della Chiesa, anzi, si può dire che la marcia indietro estremista, desiderata da alcuni, non fu mai innestata.
Ma fu un fatto che il veicolo smise di muoversi fino a farsi smontare, un poco alla volta.
E quando lo spazio online giustificò la fine cartacea di testate storiche e collane esemplari, anche Filmcronache e Studi e Ricerche cambiarono destinazione.
Quale non so dire poiché, da allora, me ne sono disinteressato. Ma, come tante altre pubblicazioni che ancora esistono, l’esistenza stessa non deve far suppore che si tratti delle stesse cose.
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Enzo, per non essere travolto dalle nuove spartizioni (sia quelle indotte dai governi  Prodi e successivi del nuovo centro-sinistra, sia quelle dei due dicasteri berlusconiani). preferì andare in pensione dalla carica all’Ente Cinema.
In seguito la critica cinematografica fu espulsa (accadde dovunque. come oggi è ben chiaro) dalle rubriche essenziali e così accade anche su Famiglia Cristiana.
Lui vi rimase ancora per qualche anno, come giornalista free lance, pubblicando articoli sullo stato del cinema, del cinema pubblico che ben conosceva, ma anche su eventi della storia contemporanea, fatti poco conosciuti e personaggi la cui personalità era tutta da chiarire.
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Terminata la sua funzione su L’Osservatore Romano e la radio vaticana, amava molto scrivere per  Nostro Cinema, pubblicazione interna all’esercizio, e Il Giornalino di Sant’Antonio dove poteva rivolgersi ad un vastissimo pubblico di abbonati.

Ma, ad un certo punto, smise la collaborazione.
Scrisse ancora recensioni e pezzi di analisi su Immagine e Pubblico e l’ultima edizione di Cinemasessanta.
Ma intanto aveva deciso, come desiderava da molti anni, di darsi alla narrativa.
Licenziò due gialli-storici che avrebbero potuto diventare libri di successo e lanciare il loro autore in una nuova e proficua avventura.
Però qui il buon carattere non lo giovò.

Il primo volume (Il Graffio della Regina) raccolse l’interesse di una grande casa editrice. Ma, per escludere l’inevitabile presenza di un editor con cui non desiderava scontrarsi, preferì lasciare la pubblicazione ad una piccola e quasi invisibile editrice, sua vecchia amica, che gettò nel disinteresse  quasi generale anche il secondo testo : I diamanti di Kesserling.
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Per quanto mi compete io penso comunque che i suoi libri da rivalutare, dedicati al cinema e ad un’idea pedagogica del cinema di raro entusiasmo letterario, siano i saggi scritti tra gli anni Sessanta e i Novanta – Cinema e Attività Critica; Il Linguaggio dell’Immagine; Uno sguardo nel buio/Cinema, Critica e Psicoanalasi; Attività della Critica dell’Immagine.
L’esperienza saggistica si conclude con Una poltrona per due. Cinecittà tra pubblico e privato dove esamina l’eterno scontro, nel nostro Paese, tra il cinema di Stato e quello di proprietà diversificata. Un libro importante che delinea chiaramente un territorio di ricerca altrimenti trascurato, elaborato sia attraverso l’esperienza personale ma anche con lo studio degli eventi precedenti fin dal contrasto tra Luigi Freddi, creatore di Cinecittà, e l’associazione fascista degli industriali del cinema.
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Enzo perse un figlio, che aveva circa la mia età, quand’era ancora un ragazzo. Lo stesso brutto male si prese poi sua figlia.
La moglie smarrì se stessa, si estraniò da tutto e tutti, e anch’ella se ne andò lasciandosi morire di muta e tremenda inedia.
Lui non era stato, fino a quest’ultimo colpo del destino che lo privò della compagna di una vita, un uomo che non sapesse elaborare il lutto.
Profondamente credente, se la sua attività fosse stata quella di sempre avrebbe saputo volgerla a mantenersi ancora in una buona forma intellettuale.
Era un uomo capace di attraversare Roma su un traballante motorino o percorrere un migliaio di chilometri su una pesante moto a sei cilindri.
A più di settant’anni nuotava come un professionista tra gli scogli di Santa Marinella – suo buen retiro estivo – immergendosi in profondità pur senza praticare la pesca subacquea.
Percorreva lunghi itinerari in biciletta e, quando pensava di tornare a Oneglia per trascorrervi lunghi periodi da pensionato, si informava sempre sull’evoluzione della pista ciclabile che, mi dicono, solo ora sarebbe pronta alle sue tirate.
In  coincidenza il suo abbigliamento era quasi sempre informale, sportivo. Poteva permetterselo perché lui era Enzo Natta che L’Espresso definì, una decina di anni fa, “il Decano della cinematografia cattolica”.
Era un decano che non amava la cravatta e, se la metteva, sceglieva quasi sempre tinte fuori ordinanza non dissonanti dal suo fisico atletico e la sua sagace ironia.
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Fu anche sceneggiatore, scegliendo l’anonimato, di film commerciali: sandaloni mitologici o pseudostorici, western italoiberici, prodotti senza alcuna intenzione d’altro che divertirsi e far qualche soldo.
Il suo prestigio e I suoi contatti sempre buoni con gli esercenti e i gestori dei numerosi teatri di posa che crescevano in quei periodi ormai lontani  gli permettevano questo svago.
Tanti anni dopo lavorammo insieme ad un progetto sulla Legione Straniera a cui poi rinunciammo per ragioni del tutto mie personali.
Indubbiamente, sia che fosse un copione o un articolo giornalistico, un saggio analitico o una recensione ad uso dei ragazzi dei campi-scuola  – dove si recava ogni anno, in Val d’Aosta, a insegnare gli elementi fondamentali della visione cinematografica – sapeva scrivere con quell’estro che oggi non si riscontra facilmente nelle nuove generazioni.
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Ma il suo più grande merito, il ricordo che lascia in chi lo ha conosciuto, animato da sincero affetto, è la personalità vivace e dinamica, tollerante e leale, generosa e capace di atti di estrema sincerità anche quando la sua posizione sarebbe stata, per altri, finalizzata al gusto del potere e dell’arricchimento privato.

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Non è stata una buona cosa che, in mancanza di notizie d’agenzia, la sua scomparsa sia stata quasi ignorata anche su tante testate che gli dovevano molto nonché sulle pagine dei quotidiani della sua città di nascita dove, a uno come lui, non è stato destinato mai un qualsiasi riconoscimento adeguato.
Lui, comunque, da quando s’era rinchiuso nella sua ultima vita quotidiana da cui non desiderava più uscire, non avrebbe chiesto per sé una sola riga, una sola parola.

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