Karlovy Vary KVIFF 2021 – Intervista a Omar El Zohairy

di Massimo Lechi.

Presentato alla cinquantacinquesima edizione del Karlovy Vary International Film Festival (20-28 agosto 2021) nella sezione Horizons, Feathers è stato senza dubbio uno degli esordi registici più celebrati dell’anno.

Sin dall’anteprima alla Semaine de la Critique di Cannes, lo spiazzante film del talentuoso trentatreenne Omar El Zohairy, un diploma allo High Institute of Cinema del Cairo e un passato da assistente di importanti cineasti egiziani, ha infatti mietuto abbondanti consensi grazie alla straordinaria ricchezza delle immagini, a un umorismo ghignante piuttosto raro nel panorama arabo contemporaneo e alla genialità del soggetto. Non capita spesso, del resto, di entrare in contatto con favole tragicomiche ambientate in polverosi mondi di relitti umani e aventi come protagoniste silenziose madri di famiglia costrette ad affrontare le penose conseguenze delle inspiegabili trasformazioni dei propri mariti-patriarchi in polli scacazzanti. Nemmeno al cinema.

 

Quando hai iniziato il progetto Feathers?

Verso la fine del 2014. All’epoca avevo ventiquattro-venticinque anni e non pensavo che avrei realizzato dei film. Nell’industria cinematografica egiziana si diventa registi prima studiando all’accademia e poi facendo l’assistente per un periodo, e solo verso i quaranta puoi iniziare a pensare di dirigere un lungometraggio. A Yousry Nasrallah, che era il mio regista e il mio vicino di casa, piacque molto il mio cortometraggio di diploma e mi consigliò di mandarlo a Cinéfondation. I selezionatori lo accettarono nel giro di una settimana e, a Cannes, si complimentarono con me e si offrirono di aiutarmi a sviluppare il mio primo film a Parigi. Io però non avevo una storia in testa. Tornato in Egitto, ho attraversato una lunga fase di riflessione: cercavo di trovare un soggetto da sottoporre a queste persone che erano state così gentili con me, ma niente funzionava davvero. Finché un giorno, all’improvviso, non mi è venuta un’idea: un uomo si trasforma in un pollo e, una volta ritornato umano, viene ucciso dalla moglie.

E basta.

Sì, questo era il punto di partenza. L’istinto mi diceva che ne sarebbe venuto fuori un buon film.

Poi però c’è voluto del tempo per sviluppare il soggetto.

Tantissimo tempo. Il primo trattamento risale al 2015: lo inviai sempre a Cinéfondation, ma venne rifiutato.

Questo fa sorridere, guardando oggi al Feathers fatto e finito. Sembra assurdo che ti abbiano costretto a lavorare così tanti anni sulla sceneggiatura, quando poi il tuo è un film che si basa interamente sulle immagini, sull’aspetto visivo.

Da giovane non avevo né consapevolezza del mio talento visivo né grande fiducia in me stesso e nel mio cinema. Ora ho trentatre anni, il film l’ho girato l’anno scorso, a trentadue. Sono passati sette anni. Sette anni di lavoro: un periodo di tempo di cui avevo bisogno per imparare e comprendere il processo di scrittura cinematografica.

E cosa hai imparato?

Che i miei non sono film “scritti”. La sceneggiatura a cui arrivammo dopo aver partecipato ai laboratori di scrittura di Sundance e Torino era scritta bene, ma non mi piaceva. Lo dissi anche alla mia produttrice, Juliette Lepoutre di Still Moving: è ok, ma non è il mio film. Alla fine mi è stata data la possibilità di scrivere in autonomia e il risultato è stato una sceneggiatura “visiva”, sulla quale ho avuto la grande fortuna di lavorare con una troupe di persone giovani e talentuose, conosciute prima del Covid sui set pubblicitari.

Avete girato durante la pandemia?

Sì, e siamo stati molto fortunati. Il piano iniziale era di lavorare con una troupe internazionale, ma per via del Covid abbiamo scelto di usarne una locale, e questo credo sia stato un bene per il film. Non ne faccio una questione di nazionalità, ma di alchimia: dell’alchimia che si viene a creare tra le persone.

Hai usato degli storyboard?

Tutto il film era su storyboard: avevamo un documento di quattrocento pagine che copriva ogni singola inquadratura. È così che lavoro. Non sono un perfezionista, nel senso che non cerco di trasferire sullo schermo tutto quello che ho in testa, però sono molto preciso. Mi preparo molto bene e, una volta che sono sul set, cerco di essere aperto alle sorprese. Spesso cambio le scene in base a qualcosa che mi colpisce in un attore, in un animale, in una luce particolare o in base a qualcosa che vedo quando tutti gli elementi sono lì, pronti per essere ripresi. Sono attento alla tecnica, ma lascio che le cose mi sorprendano.

Questa tua attenzione ai dettagli tecnici ti viene dal lavoro nella pubblicità?

Non solo. Sono stato a lungo l’assistente di Yousry Nasrallah, che è molto preciso nel fare il découpage: con lui sai sempre molto prima quale aspetto avrà il film. Quello che ho imparato dalla pubblicità è la chiarezza: in uno spot tutto deve essere chiaro, comprensibile.  Il cinema, invece, può essere vago.

Il tuo collega Amir Ramses in un’intervista mi ha detto che, a causa dei set troppo caotici e affollati, in Egitto i registi hanno poco tempo per concentrarsi sulle questioni artistiche. Mi pare di capire che tu lavori meglio con una troupe più piccola, anche se composta da tecnici egiziani.

Credo che, quando si tratta di riprese, ogni paese abbia un sistema di lavoro diverso. L’Egitto ha un’industria enorme ed è un paese densamente popolato: sono cento anni che da noi si fa cinema così, nel caos e con troppe persone sul set. È possibile che la situazione cambi, ma non subito: ci vorranno anni. Bisogna imparare a essere pragmatici in queste cose. Sono d’accordo con Amir, ma è anche vero che, nel nostro paese, ci sono ancora registi che realizzano grandi film.

In Feathers ho trovato straordinaria la fotografia di Kamal Samy.

Lui non aveva mai fatto cinema. Mai. Nemmeno un cortometraggio.

Pazzesco.

Sì, ha un talento incredibile. L’ho voluto fortemente: sapevo come avrebbe guardato al film, come insieme avremmo potuto trovare delle soluzioni visive. L’idea era di prenderci dei rischi e affrontare l’ignoto.

A proposito di ignoto, il vostro cast è composto da attori non professionisti. Scelta voluta sin dall’inizio?

Sì, è stata una decisione consapevole che ha anche influenzato la sceneggiatura. Avevo fatto lo stesso nei miei cortometraggi. Nel caso di Feathers avevamo una storia high concept ambientata in un mondo irreale: coinvolgere delle persone senza esperienza di recitazione, con scarsa consapevolezza della macchina da presa e dei movimenti, era la cosa giusta da fare. Gli attori professionisti sono sempre consapevoli, sanno sempre come posizionarsi rispetto alla luce, anche a livello inconscio. Invece io volevo che il vero valore del film fosse la realtà dentro all’assurdo della storia.

Infatti si percepisce subito questo contrasto tra la precisione delle inquadrature, che sono dei veri e propri tableaux vivants, e la spontaneità dei non-attori presi dalla strada…

Che, come avrai notato, commettono un sacco di errori e guardano in camera.

Come ti sei relazionato con loro?

Non gli ho mai dato la sceneggiatura. Non ho mai usato niente di scritto. Quando incontravo un attore, gli raccontavo la singola scena a voce, per rendere le cose un po’ più semplici. E non giravo troppo: uno, massimo due take, in genere. È il motivo per cui la lunghezza del film è dipesa dagli attori, dai loro ritmi, e non da ragioni tecniche.

È un modo di dirigere molto rischioso.

Lavorando così, il rischio è di dover aspettare che succeda qualcosa. E a volte ci vuole molto più tempo di quello che vorresti.

Non avresti mai potuto lavorare così in pellicola.

Ma, come ti dicevo, non ho fatto molti take. Molte scene, come quella in cui il bambino dà fuoco alla giacca, le ho girate una volta sola – anche perché non potevano essere rifatte. Alla fine, l’intero girato era dieci ore, che è niente: in media, oggi, col digitale si arriva a cinquanta ore.

Con gli attori sei stato un po’ ladro, si potrebbe dire.

Sì, ho rubato qualcosa. Ma sono sempre stato leale con loro. Inoltre ho seguito un metodo che ha fatto impazzire il mio assistente: non ho filmato la sceneggiatura in ordine cronologico, ma in ordine casuale, proprio per ottenere il massimo dagli attori. Sapevo che la “recitazione” sarebbe venuta fuori al montaggio. La sequenza finale, per esempio, è stata creata montando insieme frammenti girati in momenti diversi della lavorazione. Non abbiamo fatto del teatro.

Ci hai messo molto a trovare gli attori?

Sì, è stato un processo molto lungo perché ho scelto personalmente ogni singola faccia che compare sullo schermo, incluse le comparse.

Li hai scovati al Cairo?

Negli studi del Cairo era impossibile: lì trovi solo persone, spesso di talento, che vogliono recitare. Abbiamo guardato tra le comparse, anche tra quelle occasionali. Se in un film egiziano è richiesta una scena di massa in uno stadio, si fanno arrivare cinquemila comparse: ecco, tra queste ci possono essere delle facce straordinarie. Altre volte avvicinavo gente per la strada, oppure facevo dei giri per i villaggi. In totale ci abbiamo messo due anni.

Il mondo di Feathers è una sorta di versione grottesca dell’Egitto più povero. Credo di non aver mai visto un film più sporco in vita mia. Hai letteralmente gettato i tuoi personaggi nel lerciume, nella spazzatura.

Non lo vedo come un mondo di spazzatura, ma come un ambiente molto duro. Quello che ho fatto è stato eliminare ogni etichetta, ogni riferimento: i personaggi, infatti, non hanno nome. Molti mi hanno rivelato di aver capito che si trattava di un film egiziano solo grazie alla lingua. Non è l’Egitto che tutti conoscono. Per me la storia è ambientata nel backstage del mondo, nel backstage di ogni paese: un luogo che potrebbe essere ovunque e in cui gli individui non contano nulla.

Un mondo di povertà che tu racconti senza scadere nella pornografia.

Guardando il film, in mezzo a tutto quel sangue e a quella polvere, senti il desiderio di respirare, esattamente come i miei protagonisti. Ho cercato di sorprendere il pubblico e di giocare con la sua percezione. Sullo schermo ci sono persone vere ed era importante per me creare un legame tra loro e gli spettatori di diverse classi e nazionalità. È importante che questi vedano la storia della mia antieroina e scoprano qualcosa con cui, nella vita reale, non entrerebbero mai in contatto.

I tuoi spettatori saranno quasi certamente tutti “ricchi”: è quello che accade ai registi che presentano i loro film ai festival europei.

Sì, e sono sicuro che chi vedrà il film riconsidererà il proprio rapporto con i più poveri. Il punto è ripensare il modo in cui ci poniamo nei confronti degli altri esseri umani e interrogarci sul perché esista la povertà.

Pensi che questo discorso possa far breccia anche nel pubblico egiziano?

Gli spettatori egiziani hanno paura del cinema che racconta loro la realtà così com’è. Quindi sì, credo che Feathers possa essere un film in grado di spingerli ad affrontare temi che non hanno mai voluto discutere.

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