Karlovy Vary KVIFF 2021- Intervista a Claudio Cupellini

di Massimo Lechi.

Unico lungometraggio italiano in corsa per il Globo di Cristallo alla cinquantacinquesima edizione del Karlovy Vary International Film Festival (20-28 agosto 2021), dove è stato presentato in anteprima internazionale, La terra dei figli di Claudio Cupellini è un viaggio tortuoso in un mondo oscuro e violento, in uno scenario post-apocalittico da fantascienza distopica nel quale l’umanità è stata decimata da un’imprecisata catastrofe e ridotta alla lotta per la sopravvivenza. Un film intenso, di notevole forza visiva, che ha saputo far breccia nel cuore degli spettatori del festival – ma non, purtroppo, in quello dei giurati.

Nell’adattare per il grande schermo l’omonima celebre graphic novel di Gian Alfonso Pacinotti in arte Gipi (pubblicata nel 2016 da Coconino Press – Fandango), Cupellini si interroga sul rapporto tra le generazioni e sull’importanza della memoria, confezionando un ambizioso e rischiosissimo racconto di formazione che, specie dal punto di vista produttivo, risulta di difficile collocazione nel panorama cinematografico italiano contemporaneo.

 

Cosa ti ha spinto ad adattare il romanzo a fumetti di Gipi?

Io sono un grande appassionato di graphic novel, e Gipi è uno degli autori che amo di più. Ma a differenza degli altri suoi lavori, che pure mi erano piaciuti tantissimo, La terra dei figli mi ha colpito al punto di pensare di farne un adattamento cinematografico. Principalmente per via dei temi che affronta: in particolare il rapporto tra il padre e il figlio e la ricerca spasmodica del passato. Dal mio punto di vista, senza memoria non è possibile avere un futuro, ed è stato anche questo a farmi sentire che mi stavo muovendo in un territorio che mi apparteneva e a spingermi con decisione a lavorare sul libro.

Il rapporto padre-figlio era al centro anche di Una vita tranquilla, così come il discorso sulla memoria, che qui però è curiosamente ribaltato.

Sì, perché ad aver bisogno di una memoria e di un passato è il figlio. Mentre in Una vita tranquilla la memoria apparteneva al padre, che cercava in qualche modo di nasconderla.

Il discorso è molto più universale, molto più “pesante”. Una vita tranquilla invece era un film più intimista.

Dici bene. Nel caso di Una vita tranquilla si parlava di una questione sentimentale decisamente più intima. Ne La terra dei figli c’è il rapporto quasi ancestrale che lega padri e figli – figli che hanno sempre bisogno di uccidere i padri per poter andare avanti. Qui abbiamo un figlio che non ha gli strumenti per superare la memoria del padre e va dunque in cerca di una soluzione al suo dilemma e, in maniera anche inconsapevole, di un futuro.

Oggi il conflitto tra generazioni è un po’ il grande elefante nella stanza, come dicono gli americani. Mi riferisco al dibattito pubblico, naturalmente.

Guarda, non ne faccio un discorso globale perché non ne sono capace, però, come ho detto anche in altre occasioni, oggi viviamo in un mondo che sta diventando sempre più ostile e diffidente – e non mi riferisco tanto a quello che è accaduto negli ultimi due anni. Si sente covare qualcosa da parte dei giovani: un’insoddisfazione, una rabbia, una volontà di cancellare la brutta eredità che gli stiamo lasciando. La forbice tra le generazioni si sta allargando sempre di più.

Un punto interessante de La terra dei figli è però il fatto che il conflitto sia cercato, addirittura costruito dal padre per rendere più forte il figlio.

In un mondo così complicato, dove vige la regola della violenza e del sospetto, per il padre, l’unico modo per educare il figlio è abituarlo alla durezza della vita.

Mi sembra che questo sia il tuo film più duro, più crudo. Vedendolo viene immediatamente in mente Cormac McCarthy.

Be’, non si poteva non fare i conti con quel capolavoro che è La strada di McCarthy… Altrimenti anche quello sarebbe stato un elefante nella stanza enorme! Ne La terra dei figli ci sono delle regole d’ingaggio piuttosto forti: parliamo di rapporti umani in un mondo che è finito, in cui si lotta per la sopravvivenza. Ma non credo di essere diventato io più pessimista. Credo anzi che sia l’epoca nella quale viviamo ad avermi portato verso un racconto che anche rispetto al fumetto è ancora più coriaceo, ancora più duro. Allo stesso tempo, però, non volevo fare un film punitivo, ma un film che contenesse una speranza. E non importa quanto, metaforicamente, questa fiammella sia flebile: l’importante è che ci sia. Avrei trovato disonesto essere più consolatorio.

Domanda inevitabile, e forse un po’ stupida: la pandemia ti ha fatto guardare al film con un occhio diverso?

Non nel farlo. Se lo riguardo, però, penso che sia un lavoro aderente al nostro tempo. Ma lo pensavo anche prima… Quello che mi interessava non era girare un film catastrofico, o distopico, ma parlare di un figlio e della sua formazione come essere umano.

Quindi rigetti l’etichetta di film di genere?

La rigetto completamente, e mi infastidisce molto perché la trovo riduttiva. Come dicevo qualche sera fa con Marco Bellocchio, non esiste il “film di genere” – a meno che tu non faccia qualcosa che dichiaratamente voglia intrattenere. Esistono solo dei film che possono essere più o meno personali. Quando per pigrizia chiamavano Una vita tranquilla un noir, a me sembrava una definizione molto sbagliata perché il film non ne aveva le caratteristiche: se anzi andiamo a vedere quali sono i topoi di quel genere, ci rendiamo conto che non ne ha nessuno.

La terra dei figli ha il passo lento. Un critico di lingua inglese lo definirebbe slow-paced…

Lo hanno detto, ma come complimento! (ride) Sì, ha questo passo, questa natura introspettiva, e me ne sono accorto soprattutto in fase di riprese. Tanto che addirittura, arrivati al terzo atto del film, visto che eravamo riusciti a girare in progressione, ho capito che avremmo potuto tagliare dei momenti di azione pura e concentrarci solo sulla parte sentimentale.

Com’è stato per te adattare per lo schermo una graphic novel? Avere già delle immagini da cui partire ha reso il tuo lavoro più difficile o ti ha aiutato?

Per alcuni versi è stato difficile, perché la prima cosa da fare era svincolarmi dalla graphic novel, che era bella e funzionava bene di per sé. Sarebbe stato sciocco replicarla, seguendo le tavole come se fossero state uno storyboard. Però mi ha anche aiutato a trovare la chiave: il mondo disegnato da Gipi, marcio e regressivo, mi ha fornito diversi spunti per ricreare lo spazio in cui inserire i miei personaggi.

Esteticamente La terra dei figli ha poco in comune con i tuoi lungometraggi precedenti.

Credo che ci sia stata una certa evoluzione. Lo scarto che si percepisce tra Una vita tranquilla, Alaska e La terra dei figli penso sia piuttosto naturale. Collaboro da sempre con lo stesso direttore della fotografia, Gergely Pohárnok, e vedo come negli anni il nostro modo di lavorare – come ci prepariamo, come arriviamo sul set, le possibilità che sul set ci diamo per creare – sia rimasto lo stesso. Questo film però ci richiedeva un altro tipo di tensione: dovevamo raccontare un mondo.  Un mondo che a livello figurativo mi immaginavo con molti più piani larghi, ampi, e con tempi nelle inquadrature che avessero un respiro diverso rispetto al passato.

Il cast. Leon de la Vallée, il tuo giovanissimo protagonista, è una rivelazione.

Leon è stata una scelta indovinata. La sua fisionomia irregolare, bisogna dirlo, ricorda quella dei personaggi di Gipi. Lui è capace di grande dolcezza e ha questo nervosismo nel fisico che infonde grande realismo nel film, specie all’inizio. Io sono abituato a lavorare sempre con degli interpreti intelligenti, e stavolta penso che la fortuna sia stata – oltre all’aver ritrovato attori con i quali avevo già collaborato come Paolo Pierobon o Maurizio Donadoni – l’aver avuto Valerio Mastandrea e Valeria Golino disposti a mettersi in gioco in ruoli per loro inediti. Maria Roveran poi, con tutto il lavoro che ha fatto sul corpo e sul personaggio, mi ha fatto un dono pazzesco.

Hai scelto solo attori italiani, cosa non scontata considerate le dimensioni della produzione.

Su questo sono andato molto deciso. Per me era un film italiano, europeo, e doveva avere una marcata verosimiglianza – al di là del fatto che gli attori provengono da regioni diverse.

Collocare il tuo film all’interno della produzione italiana corrente mi sembra molto complicato. È un lavoro unico, molto lontano dai cliché di tanto nostro cinema – e dall’idea che del nostro cinema si ha all’estero. Forse è più vicino a certe nuove serie televisive, come Romulus.

La nostra serialità e le nuove piattaforme hanno sdoganato tanti modi di raccontare che si allontanano dal realismo al quale siamo abituati. E Romulus, in questo senso, è un ottimo esempio. Nel cinema invece la situazione è sicuramente diversa. Quindi sì, probabilmente La terra dei figli è un’eccezione. Però io sono felice di aver diretto un film del genere, non solo come atto di coraggio ma anche come dimostrazione che siamo in grado di realizzare cose che hanno una loro originalità.

Continuerai su questa strada?

No, penso che tornerò alla base – e non per timore. Questa è stata un’avventura molto bella, ma i miei progetti futuri riguardano storie che, dal punto di vista dell’immaginario, non sono così ardite.

Mi pare di capire, da come ne parli, che consideri La terra dei figli un film importante nel tuo percorso di regista.

Sì, ne sono orgoglioso. È un film particolarmente duro e particolarmente difficile. Ma sentivo – e sento tuttora – che fosse il caso di farlo.

 

 

 

 

 

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