Intervista a Diego Scarponi, regista di “IMPA, la città”

di Juri Saitta.

In un periodo in cui il cinema si occupa relativamente poco del mondo del lavoro, il ricercatore dell’Università di Genova e filmmaker savonese Diego Scarponi realizza da diversi anni alcuni documentari sul passato industriale del territorio (e non solo): dall’Ilva (L’età del ferro e Memoria Fossile) al porto di Savona (Alfabeto Camallo. Noi eravamo tutto), passando per il Kentucky minerario di Shadows of Endurance.

Con il suo ultimo lavoro, IMPA la città, il regista savonese si è recato in Argentina per riprendere le attività dello stabilimento IMPA che dà il titolo al film, una fabbrica recuperata e autogestita situata nel centro di Buenos Aires nella quale coesistono produzione industriale e produzione immateriale. In tale stabilimento, infatti, convivono una cooperativa di operai che realizza tubetti in alluminio e numerose realtà culturali, educative e artistiche che danno vita a molte importanti attività per il tessuto sociale della capitale argentina, come per esempio un centro di recupero contro l’abbandono scolastico, numerosissimi laboratori, una radio, una televisione popolare e un museo della fabbrica gestito dagli stessi operai e aperto una volta al mese.

L’opera di Scarponi riprende appunto le varie attività che si svolgono all’interno dell’edificio nella loro quotidianità, privilegiando un racconto corale e uno stile filmico “osservativo” molto vicino al cinema di Frederick Wiseman e Nicolas Philibert.

Prodotto dall’italiana Don Quixote di Torino e dall’argentina Actitud Cine di Buenos Aires, in associazione con la ligure gargagnànfilm, il film ha ricevuto il sostegno dell’INCAA (Istituto Nazionale Argentino del Cinema e delle Arti Audiovisivi) e della Film Commission Torino Piemonte. IMPA la città è il frutto di un lavoro lungo, durato circa sette anni, che ha coinvolto diversi enti e associazioni, e che sarà presentato in anteprima mondiale mercoledì 2 dicembre al FilmmakersFest di Milano, ovviamente in modalità streaming.

«Come filmmakers e coordinatore del Laboratorio Audiovisivi Buster Keaton all’interno del Campus di Savona nell’ambito del Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione dell’Università di Genova mi occupo da anni di tematiche legate all’industria e al lavoro ed è dal 2013, quando ancora non sapevo dell’esistenza di IMPA, che volevo realizzare un documentario sulle fabbriche occupate» spiega il regista durante l’intervista che gli abbiamo fatto in occasione della manifestazione milanese.

«Visitai per la prima volta lo stabilimento di Buenos Aires nel 2014, quand’ero in Argentina per il dottorato di ricerca, e ne rimasi immediatamente molto colpito e affascinato, tant’è che decisi fin dall’inizio di raccogliere materiale e cercare finanziamenti per poter girare un documentario su questo spazio unico» afferma Scarponi.

Dal film traspare la tua attrazione per IMPA, una realtà sicuramente interessante e stimolante, che nasce però da una vicenda per certi aspetti drammatica.

Fondata negli anni Venti del secolo scorso per fabbricare aerei e biciclette, l’azienda negli anni Cinquanta poteva contare su circa tremila operai. Purtroppo, nel 1998 l’impresa entra in crisi rischiando la chiusura e la svendita degli immobili. Per evitare ciò, un gruppo di operai forma una cooperativa e occupa lo stabilimento alleandosi con diverse associazioni del quartiere e della città, le quali ancora oggi usufruiscono di parte dell’edificio per portare avanti laboratori di tipo educativo, sociale e culturale.

Grazie a tale operazione, oggi IMPA è un luogo importante per la Capitale e una realtà riconosciuta anche a livello statale, tanto che nel nuovo governo di sinistra, guidato da Alberto Fernández, il coordinatore della cooperativa operaia dello stabilimento è diventato una sorta di sottosegretario al lavoro con delega alle fabbriche recuperate (autogestite). Questo si è reso necessario perché in Argentina quella degli stabilimenti industriali occupati ed autogestiti dai lavoratori è una realtà diffusa e consolidata, inaugurata proprio da IMPA, che è stata un modello per tutti quei lavoratori che hanno cercato di mantenere la propria occupazione impendendo che l’azienda in cui erano assunti chiudesse a causa della crisi economica o della speculazione edilizia e finanziaria massicciamente presente nel Paese.  Il riconoscimento pubblico sopra descritto è stato però possibile solo dopo a una serie di lotte e di conquiste avvenute nel corso del tempo, basti pensare al fatto che il centro di recupero contro l’abbandono scolastico sia stato illegale per ben otto anni o che IMPA abbia ottenuto solo tre anni fa una legge ad hoc contro lo sgombero dello stabilimento, a condizione che continuino la produzione industriale e le attività a sfondo educativo e sociale.

Ma pur con tutte le sue difficoltà e i suoi problemi, l’esperienza argentina ha sicuramente fatto scuola, come dimostra il fatto che la realtà delle imprese recuperate, chiamata anche wbo (workers buyout), è un fenomeno in grande crescita anche in Italia, dove si contano oramai centinaia di casi.

Il tuo lavoro si può tranquillamente definire come un “documentario d’osservazione”, in quanto segue le attività operanti a IMPA facendo quasi a meno delle interviste e delle testimonianze dirette. Puoi parlarmi di questa scelta espressiva?

Pur ammirando da sempre tale stile e tipo di cinema, questa è stata una delle rare volte che l’ho potuto applicare in un mio film. Questo perché nei titoli precedenti ho “ricostruito” la storia di un luogo di lavoro, mentre qui ho voluto concentrarmi sull’oggi, anzi, su un suo momento piuttosto circoscritto – i mesi di marzo e aprile 2019, quando sono state effettuate le riprese –, realizzando così una sorta di trance de vie della fabbrica. Naturalmente, questa scelta narrativa ha avuto delle conseguenze anche sul piano linguistico ed espressivo: se i film precedenti – raccontando il passato – erano composti soprattutto dalle interviste e dalle testimonianze di chi ha vissuto il porto savonese, l’Ilva, la Piaggio, ecc., IMPA la città si basa sull’osservazione delle attività che si svolgono attualmente nello stabilimento di Buenos Aires.  E nonostante non manchino neanche qui delle voci e delle testimonianze più dirette (utili soprattutto a orientare lo spettatore), il metodo utilizzato per realizzare il film è stato quello dell’osservazione partecipante, con la quale ho cercato di tenere la giusta distanza dal contesto che avevo di fronte: da un lato, ho mantenuto un occhio esterno e tentato di riprendere gli eventi nel loro farsi, mentre dall’altro mi sono confrontato prima, durante e dopo le riprese con i “protagonisti” del documentario. Infatti, per quanto il film sia stato poco scritto e abbia preso forma soprattutto al montaggio, ci sono state delle scene in qualche modo più “preparate” e organizzate, e la presenza di una troupe – anche se piccola come la nostra – ha inevitabilmente condizionato alcuni dei momenti e dei soggetti ripresi.

Questo metodo di lavoro che si avvicina molto ai documentari di Frederick Wiseman e Nicolas Philibert, registi che infatti citi nei titoli di coda.

Per me Wiseman e Philibert sono due punti di riferimento sia come cinefilo e ricercatore sia come filmmaker. Posso affermare che, nel caso di IMPA la città, mi sono ispirato all’autore francese per la rappresentazione dello spazio, che ho descritto nella sua dimensione collettiva, privilegiando il racconto corale al ritratto di un unico individuo. Del maestro statunitense, invece, ho preso l’idea di comporre il film come un mosaico, in cui le singole attività e i singoli soggetti producono un insieme più grande. E, sempre ispirandomi a Wiseman, ho costruito il mio lavoro soprattutto al montaggio, realizzato da Lorenzo Martellacci e supervisionato da Jacopo Quadri, che ringrazio per la disponibilità e i consigli dateci.

Anche se nel film vi sono alcuni elementi di entrambi i documentaristi, ritengo che il tuo approccio sia in questo caso più vicino a quello delicato e affettuoso di Philibert che a quello tagliente e conflittuale del regista statunitense. Sei d’accordo?

Sicuramente qui l’aspetto critico che hai citato risulta decisamente marginale nell’economia narrativa dell’opera. Questo perché con tale documentario ho voluto raccontare e, in qualche modo, omaggiare una realtà che colpisce e attrae chiunque abbia l’occasione di vederla. Interessante in questo senso il modo con cui gli argentini descrivono la fabbrica: “IMPA enamora”, definizione che evidenzia quanto questo sia un luogo che crea fascinazione e ammirazione in tutti coloro che lo vivono e lo visitano.

Hai in programma un altro progetto dopo IMPA la città?

In questo momento sto lavorando a Fantasmi a Ferrania, un documentario prodotto da Kiné e realizzato con i miei soci della gargagnànfilm, incentrato sulla famosa fabbrica di pellicole situata a Ferrania, frazione di Cairo Montenotte. Stiamo ultimando la fase di montaggio, spero che l’opera sia pronta al più presto e posso già anticipare che, rispetto a IMPA, si tratta di un lavoro più scritto e basato sul materiale d’archivio, dunque sulla memoria e la storia, quella di una fabbrica, di una città, ma anche di un’epoca e di un cinema che ormai non esistono più.

 

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