“Il processo ai Chicago 7” di Aaron Sorkin

di Aldo Viganò.  I film ambientati nelle aule di un tribunale affascinano da sempre (almeno dall’avvento del sonoro in poi) la produzione, gli autori e gli spettatori cinematografici. Sopratutto quelli degli Stati Uniti, favoriti in questo dalle strutture coinvolgenti e competitive delle pratiche giudiziarie in cui si articolano colà i processi (con la procura di Stato che gestisce l’accusa e gli avvocati difensori che vi si contrappongono; con il giudice al centro, che con poteri quasi assoluti garantisce la costituzionalità del conflitto e infine accoglie il verdetto della giuria popolare la quale assolve o condanna “aldilà di ogni ragionevole dubbio”, ma solo dopo di aver ascoltato in silenzio i testimoni, invitati a prendere posto accanto al giudice (ma su un piano più basso), rispondere alle domande contrapposte degli avvocati.

Un modo di gestire la giustizia che possiede già al proprio interno l’aspettativa di un film.

Un processo dalla struttura narrativa che ben s’addice a una democrazia nata dalla conquista del West e che non a caso è stato assunto come emblematico proprio dal  cinema hollywoodiano, sino a diventare nella sua accezione più rigida una forma di spettacolarizzazione che ancora oggi continua a vivere: anche se soprattutto sui piccoli monitor televisivi, perché il cinema (quello vero, che si vede sempre più raramente sul grande schermo) preferisce, invece, sempre più riservare per sé quella ambientazione inevitabilmente claustrofobica per confrontarsi con i grandi temi etico-sociali che abbiano più o meno diretta ricaduta sull’attualità della cronaca (da “Amistad” a “Codice d’onore” solo per intenderci) o sulla messa in giudizio di grandi eventi che hanno fatto discutere l’intero Paese, come avviene in questo “Il processo ai Chicago 7”.

Ed eccoci così al film scritto e diretto da Aaron Sorkin, che a Hollywood è soprattutto apprezzato come scrittore esperto di testi dall’impostazione teatrale e dai dialoghi che valorizzano la recitazione degli attori.

Gli avvenimenti cui questo celebre “processo” fanno riferimento rinviano a un anno cruciale del Novecento, cioè a quel 1968 macchiato di sangue non sono dall’uccisione di Martin Luther King e di Robert Kennedy, ma anche dallo svolgimento sempre più cruento della guerra del Vietnam. Un anno caratterizzato pure dalla contestazione giovanile nonché dal passaggio della presidenza degli Stati Uniti dai democratici ai repubblicani. Ed è, appunto a questi due ultimi fatti – la contestazione e l’elezione presidenziale – che fa riferimento diretto il film di Sorkin.

I fatti sono noti. Nell’estate del 1968, gli hippies americani si riunirono a Chicago per interrompere con qualsiasi mezzo la “Convension” democratica che doveva portare alla rielezione il presidente Hubert Humphrey. La contestazione giovanile, che assunse anche forme violente, nasceva in odio nei confronti della guerra del Vietnam e ben poco si preoccupava del fatto che avrebbe così aperta la via alla nomina del  “reazionario” Richard Nixon. Del resto, la lungimiranza non è mai stata una virtù dei “figli dei fiori”. Ne nacque così un processo che si svolse nell’anno seguente con una impostazione esplicitamente restauratrice, con l’implicito intento di porre fine a ogni forma di opposizione.

Su questi avvenimenti pose per primo il proprio interesse Steven Spielberg che ne commissionò a Sorkin la sceneggiatura con l’intento di fare uscire il film, a propria firma, prima delle elezioni del 2008; ma poi – come sovente accade nel cinema moderno – le cose si incepparono e il progetto (rimasto nel cassetto per più di un decennio) è stato riesumato solo oggi: favorito molto probabilmente non solo dalla prossima sfida tra Donald Trump e Joe Biden, ma anche dall’apprezzato esordio alla regia (“Molly’s Game”) dello stesso Sorkin, ben volentieri subentrato a Spielberg.

Come si addice alla vocazione dell’ormai sessantenne drammaturgo e regista, il film prodotto infine dalla Netflix è un’opera che si appoggia soprattutto sui due piedestalli particolarmente cari a Sorkin: la solida scrittura e l’ottima recitazione.

Di più da un film, invecchiato troppo a lungo nel passaggio di mani tra i suoi autori, non si può chiedere.

“Il processo ai Chicago 7” è oggi solo una ricostruzione storica ben dialogata, abilmente costruita e coinvolgente sul piano narrativo; ma nello stesso tempo anche un po’ fredda e votata a soluzioni drammaturgiche non prive di risvolti scontati e a volte anche un po’ retorici. Insomma, un film che si lascia vedere, ma anche con la stessa facilità dimenticare. Se non fosse per le ottime caratterizzazioni di Frank Langella (in attesa dell’Oscar come attore non protagonista, nel ruolo del giudice tanto “di parte” da rasentare la comicità), dello “spielberghiano” Mark Rylance (l’avvocato difensore ripetutamente richiamato per oltraggio alla Corte) e del ben invecchiato Michael Keaton (il testimone a suo modo decisivo), nonché di tutti gli altri interpreti di un cast di affermata nuova generazione, comprendente Eddie Redmayne, Sacha Baron Cohen, Joseph Gordon-Levitt e Yahya Abdul-Mateen II: quest’ultimo nel ruolo del fondatore delle Pantere Nere, coinvolto suo malgrado in un processo che non lo riguarda.

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IL PROCESSO AI CHICAGO 7

(The Trial of the Chicago 7, USA 2020)   regia e sceneggiatura: Aaron Sorkin – fotografia: Phedon Papamichael – scenografia: Shane Valentino – costumi: Susan Lyall – musica: Daniel Pemberton – montaggio: Alan Baumgarten.  interpreti e personaggi: Yahya Abdul-Mateen II ( Bobby Seale), Sacha Baron Cohen (Abbie Hoffman), Joseph Gordon-Levitt (Richard Schultz), Michael Keaton (Ramsey Clark), Frank Langella (giudice Julius Hoffman), John Carroll Lynch (David Dellinger), Eddie Redmayne (Tom Hayden), Mark Rylance  (William Kunstler), Caitlin FitzGerald (Daphne O’Connor), Alice Kremelberg (Bernadine).  distribuzione: Netflix –  durata: due ore 2 9 minuti

 

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