“C’era una volta… a Hollywood” di Quentin Tarantino

di Aldo Viganò.

La tendenza di molti critici benpensanti a dividere, in occasione dell’uscita di ogni nuovo film di Quentin Tarantino, l’effimero mondo del cinema tra “tarantiniani” e “anti-tarantiniani” potrebbe essere facilmente superata se si fosse in grado di guardare innanzitutto quello che passa sullo schermo. Solo così, infatti, risulterebbe evidente la differenza tra ciò che è cinema e ciò che non lo è, tra le immagini che concorrono a definire dei personaggi e a costruire una storia  e quelle altre immagini, solo tecnicamente definibili come “cinematografiche”, che si accontentano di essere illustrazione di una vicenda narrativa già data “a priori”.

C’era una volta a… Hollywood è un film che chiede soprattutto di essere visto, e rivisto, possibilmente sul grande schermo.

È, infatti, un film nel quale ogni inquadratura, ogni sequenza, concorre con autorità alla costruzione del suo autonomo assunto estetico. Un’opera esplicitamente girata in pellicola nell’epoca del digitale. Un esempio estremo di quello sguardo sulla realtà della messa in scena, nella quale la nostalgia di un tempo che sta per finire si manifesta nel complesso intrecciarsi di parole e immagini che di questa nostalgia rivendicano con orgoglio il superamento.

Ambientato nel corso di tre giornate di mezzo secolo fa, 1969, e costruito intorno alle avventure speculari di un ex divo della televisione (Leonardo Di Caprio) e della sua controfigura (Brad Pitt), il nono film e mezzo di Tarantino si colloca cronologicamente in un momento cruciale della storia del cinema: quando potevano ancora convivere i ricordi dei fasti della Hollywood che fu e la ricerca di una nuova via per rigenerarli, questi fasti. In un’epoca, cioè, ancora orfana dell’entusiasmo giovanile dei californiani Coppola, Spielberg, Lucas o Milius, come dell’avvento dei newyorkesi Scorsese e De Palma, ma già cinematograficamente agitata dal fascino “pop” del western all’italiana e dall’impegno tendenzialmente horror della stagione degli hippies, che si esprimeva contemporaneamente nel pacifismo anti-Vietnam e nella violenza satanica che proprio nel 1969 porterà alla strage di cui furono vittime incolpevoli Sharon Tate e i suoi ospiti nella lussuosa villa di Beverly Hills.

È proprio su questo storico crinale che C’era una volta a… Hollywood si costruisce – sia narrativamente, sia esteticamente – proponendosi insieme come una rivisitazione della classicità e un’anticipazione del cinema che stava per venire; ponendo con autorità al proprio centro il primato dello sguardo, che si caratterizza in immagini sempre forti e vitali, prive di facili concessioni calligrafiche, ma sempre dotate di una loro autentica necessità.

Accade così che, tanto più ci si abbandona al personale ritmo di queste immagini e alla loro sorprendente capacità di coinvolgimento, il film diventa una grande riflessione sul cinema tutto, visto ora come la ricerca di una libera forma di comunicazione spettacolare, ora come un meticoloso lavoro sull’arte dell’attore e ora come una trasposizione nel passato dei dubbi e delle fascinazioni che attraversano inesorabilmente anche il presente e in generale la modernità.

Costruito per sequenze cronologicamente e topograficamente intrecciate, C’era una volta a… Hollywood è ancora una volta un film attraverso il quale Tarantino mescola di continuo i “generi” e i “toni”, sortendone esiti quasi sempre entusiasmanti, che di fatto vanno visti sul grande schermo piuttosto che raccontati a parole. Tra la ricchezza delle sue proposte, mi limito perciò a isolare solo pochi momenti, a mio avviso indimenticabili.

Il primo è di atmosfera e riguarda la visita di Brad Pitt all’accampamento degli hippies; visita che le immagini raccontano come un luogo in cui tutto può accadere, mescolando comicità, tentazioni sessuali e paura per una minaccia imminente. Memorabile.

Il secondo è costruito apparentemente solo attraverso la parola e riguarda la conversazione tra Leonardo di Caprio e l’attrice bambina che egli incontra sul set: da una parte c’è l’entusiasmo razionale della giovane neofita della Settima Arte e dall’altra la stanchezza esistenziale con cui l’attore le racconta la propria storia. Qui le immagini sembrano cedere il posto al verbo, ma non ci vuole molto per comprendere quanto pur tuttavia quelle immagini siano indispensabili per dare un senso e un ritmo a quel diluvio di parole, togliendo loro ogni banale funzione didascalica. Stupendo.

Il terzo attiene alla sequenza in cui Sharon Tate (Margot Robbie) va al cinema e si rispecchia nella vera se stessa sullo schermo di Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm (The Wrecking Crew), proponendo così una sorridente riflessione sul ruolo dello spettatore. Coinvolgente.

Il quarto, infine, riguarda tutta la parte conclusiva in cui, nel pieno rispetto delle leggi della favola evocate dal titolo (C’era una volta…), Tarantino rovescia in un (momentaneo?) happy end il fatto di cronaca (l’uccisione della moglie di Polanski da parte dei discepoli di Charles Manson) che sottende tutto il film. Qui l’azione si fa frenetica e ideologica insieme, traducendo in pura azione l’idea sempre cara al regista di Bastardi senza gloria (e alla Hollywood classica) della funzione catartica del “lieto fine”. Entusiasmante.

Tutto il resto (ed è tanto di più) è  giusto lasciarlo alla scoperta di ogni spettatore disposto a vederlo, perché nell’arco di oltre due ore e mezza c’è veramente tanto da scoprire sullo schermo; nella consapevolezza che, anche se non sempre se ne condividono gli amori estetici (espressi anche qui nelle numerose citazioni),  ogni film di Tarantino è pur sempre un inno al cinema e al piacere che ne deriva dal lasciarsi sedurre dal fluire delle sue immagini.

 

 

C’ERA UNA VOLTA A… HOLLYWOOD

(Once Upon a Time in… Hollywood – Usa-GB, 2019)

regia e sceneggiatura: Quentin Tarantino – fotografia: Robert Richardson – scenografia: Barbara Linq – costumi: Aranne Phillips – montaggio: Fred Raskin.

interpreti e personaggi: Leonardo Di Caprio (Rick Dalton), Brad Pitt (Cliff Booth), Margot Robbie (Sharon Tate), Margaret Qualley (Pussycat), Dakota Fanning (Lynette “Squeaky” Fromme), Bruce Dern (George Spahn), Mike Moh (Bruce Lee), Al Pacino (Marvin Schwarz), Julia Butters (Trudi), Rafal Zawierucha (Roman Polański), Lorenza Izzo (Francesca Cappucci), Kurt Russell (Randy / narratore), Michael Madsen (sceriffo Hackett).

distribuzione: Sony Pictures Entertainment  – durata: due ore e 41 minuti

 

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