Festival di Karlovy Vary KVIFF 2019 – Intervista a Gaston Solnicki

di Furio Fossati.

Gaston Solnicki, ospite fisso dei Festival di qualità, era presente a Karlovy Vary quale membro della Giuria dei documentari. Ha anche presentato all’interno della sezione Another View il suo ultimo lavoro, Introduzione all’oscuro.

Argentino di Buenos Aires, quarantenne, proviene da una famiglia di immigrati ebrei, ha studiato cinema alla Fundación Universidad del Cine di Buenos Aires, in seguito ha frequentato il corso di fotografia presso l’International Center of Photography di New York.

–        Perché hai scelto un nome in italiano per questo documentario che racconta dell’amicizia di un argentino col direttore austriaco della Viennale, Hans Hurch?

Introduzione all’oscuro è il titolo di un’opera composta dal grande musicista contemporaneo palermitano Salvatore Sciarrino ed è un omaggio in generale all’Italia: Hans trascorreva tutte le sue estati nel vostro Paese, ad Amalfi.”

–        Che tu fai riconoscere attraverso varie cartoline scritte da lui a te.

“Si, le cartoline fanno parte del materiale che raccolgo e che aggiungono o sostituiscono idee a quella che dovrebbe essere la sceneggiatura; poche righe scritte che servono soltanto come spunto, il resto nasce da improvvisazione. La tirannia delle grosse produzioni spesso castrano il film stesso con l’uso di script fin troppo particolareggiati appesantiti dall’uso degli effetti speciali. Io sono più fortunato perché posso costruire un’opera personale.

La ragione di fare vedere queste missive è dovuta al fatto cheHans non usava Internet per dialogare e comunicare, scriveva di suo pugno, inviava fax: forse perché si sentiva legato ad un passato che per lui rappresentava ancora parte importante del presente.”

–        Ho apprezzato la tua capacità di raccontare emozioni attraverso immagini che servono a creare l’atmosfera viennese, quale ad esempio il tram con i tuoi movimenti attorno e, infine, il tuo salirci.

“Questo fa parte della ricerca di spunti per la realizzazione della idea iniziale del progetto. Il direttore di fotografia portoghese Rui Poças era come sempre pronto e davanti a noi arrivò sferragliante il tram; senza nemmeno parlarci, lui iniziò a girare ed io ad interpretare un me stesso indeciso che non sa se montare o rimanere a terra.

Queste immagini potrebbero sembrare slegate al contesto narrativo, ma così non è. Spetta allo spettatore, aiutato da quanto vede, creare il proprio film, unico perché filtrato attraverso le personali emozioni.

–        Le immagini sono molto nitide. Avevate luci per illuminare il set?

“La bravura di Poças è stata di sapere leggere quanto riprende rendendolo in maniera tale da sembrare, per la perfezione, girato in uno studio. In realtà, per tutto il film, ha lavorato senza l’apporto di riflettori o quant’altro.”

–        Nel tuo passaggio al Café Engländer rubi una tazzina e lo stesso fai in un ristorante prelevando un piatto. Con questo vuoi impossessarti del suo mondo?

“Hans aveva questa abitudine: se gli piaceva un oggetto lo prendeva, ovviamente cose di poco valore venale ma per lui interessanti. Quindi, ho pensato di ripetere un gesto a lui usuale.

–        Il cameriere con cui tu parli è presente assieme a Hans in una fotografia posta nella cornice che inquadri nel caffè. Dà l’impressione che possa essere una persona speciale, quasi una memoria storica.

“Lo conoscevo già da prima, è una persona speciale che faceva parte del suo mondo perché lo vedeva tutti i giorni dato che il locale era di fronte a casa sua. Mi aveva colpito averlo incontrato al suo funerale: un bel gesto.

–        Certo. E’ vero che il locale propone un caffè come lo voleva lui e col suo nome?

“Sì, anche in questo aveva i suoi precisi gusti, con le proprie esigenze da rispettare. E’ da assaggiare per capire ancora meglio il suo modo di godere la vita.

–        L’orchestra che riprendi mentre fa le prove per un concerto, su che brano sta lavorando?

“Stanno dando vita alla partitura di Salvatore Sciarrino, Introduzione all’oscuro, che è poi il titolo del documentario.

–        All’inizio riprendi una dietro l’altra le tombe di Beethoven, di Brahms, di Hans Hurch quale giusto tributo nei confronti di questo grande storico e critico di cinema. Subito dopo inquadri il Prater animato da tante persone che vogliono divertirsi. E’ una scelta emozionale, superare la morte con la vita?

“Nel film non si parla di morte ma è sempre presente, non come evento drammatico ma quale ineluttabile parte della nostra esistenza. E’ l’opposto della nascita ma non della vita. Quindi, unire questi due momenti vuole semplicemente dire che sono momenti diversi, ma della stessa esistenza.

–        Tu che lo conoscevi bene, come valuti la scelta di Hans, probabilmente colpito da infarto, che va a Roma senza nemmeno farsi vedere da un medico. Per me è come un suicidio.

“Confermo, per me è un vero e proprio suicidio. Probabilmente non accettava di cambiare le abitudini a causa di questo problema e ha preferito concedersi ancora qualche giorno con il suo stile di vita piuttosto che affrontare un’esistenza differente. Lui ha vissuto molto intensamente, liberamente. Ha scelto di appartarsi, come certi animali, in attesa della morte.

–        Kékszakállú (2016) è il tuo primo lungometraggio con attori e, presentato al Festival di Venezia nella sezione Orizzonti, ottenendo il riconoscimento del premio FIPRESCI.

“Per me è stato complesso perché era la prima volta che dirigevo attori, anche se a loro avevo detto di dimenticare la recitazione cercando di essere al massimo spontanei, lontani dai canoni della commedia.

–        Dove lo hai girato e per quale ragione hai scelto questo titolo.

“Lo ho realizzato in due tempi, a sei mesi uno dall’altro – gennaio e giugno – a Punta del Este in Uruguay e a Buenos Aires, seguendo le esperienze di tre adolescenti in vacanza mentre affrontano il mondo degli adulti e poi si scontrano col mondo degli studi superiori e del lavoro.

Il titolo è in ungherese ed in italiano si può tradurre con Barbablù. La ragione è che è ispirato all’opera composta nel 1911 da Bëla Bartok Il castello di Barbablù (in originale A kékszakállú herceg vára).”

–        Non ti ha preoccupato sapere che l’opera di Bartok avesse avuto vita travagliata tanto da dovere attendere sette anni per essere rappresentata?

“No, il fascino dell’opera era notevole e non ho pensato ad un ripetersi di quel evento.

–        Punta del Este è un luogo di vacanza tra i più frequentati dagli argentini benestanti. Tu la conoscevi già?

“Lì ho trascorso tutte le estati da bambino e ragazzo assieme alla mia famiglia, e mi è sembrato logico pensare ad una storia che parlasse di adolescenti molto simili ai miei amici di allora. Il materiale che si vede all’inizio è stato girato col taglio del documentario utilizzando mia nipote Lara che non ha dimostrato particolare interesse per questa esperienza e ha abbandonato il progetto. In vacanza c’era l’attrice Laila Maltz che, avendo visto il mio film precedente e sapendo che cercavo un’interprete per il ruolo di protagonista, si è proposta e ha dimostrato subito di essere perfetta. Per questa mia prima esperienza con attori, la scelta di luoghi che conoscevo bene mi ha sicuramente agevolato.”

–        Difficoltà a raffrontarti con gli attori?

“Certamente. Ho dovuto costruire un tipo di rapporto che non conoscevo, e questo mi ha portato ad impiegare molto tempo – solo per le riprese due mesi – ma, alla fine, il risultato è stato un film più facilmente fruibile dal pubblico, con passaggi che possono ricordare la commedia: tutto nasce sul set, ma la struttura narrativa ha punti di riferimento con un cinema più tradizionale.”

–        Mentre per Introduzione all’oscuro hai impiegato solo 13 giorni.

“Come collaboratore avevo il bravissimo Rui Poças con cui si è creato immediato feeling: quasi tutto il girato era già pronto per andare al montaggio. E’ anche un film della struttura narrativa più semplice, con l’inserimento delle varie situazioni in maniera più libera.”

–        Quali sono le fondamentali differenze tra creare un film come il tuo e realizzare un prodotto più convenzionale.

“L’autore è sempre conscio che una sceneggiatura è solo l’inizio di un percorso su cui sviluppare l’opera. Ovviamente, nelle grosse produzioni si sente di più un controllo che limita le possibilità di esprimersi. Ma il modo di creare nei due mondi l’opera ha molte somiglianze.

–        Ho visto che il progetto per il tuo prossimo lavoro, Electrocute (Folgorato), è stato premiato al Festival di Rotterdam, ottenendo anche un contributo finanziario. In questo caso, l’idea iniziale dovrà essere rispettata più rigidamente?

“La prima cosa che cambierò è il titolo, da sempre pensato come provvisorio. Ho lavorato alla mia maniera, maniera che è stata apprezzata anche dal MOMA che ha comperato i diritti di tutti i miei film: è una bella soddisfazione se pensi che molti dicevano che erano invendibili. Forse era la difficoltà di pronunciare i titoli che spaventava…

L’attuale scrittura non può essere definita vera sceneggiatura, forse nemmeno un’idea definitiva. E’ un insieme di materiali parzialmente elaborati.”

–        Vedi il tuo futuro artistico nella fiction o nel documentario?

“Non riscontro differenza tra i due modi di raccontare, le tecniche si intersecano, si sovrappongono, diventano un unico linguaggio. Per esempio, si può interpretare in maniera differente l’opera creata da due grandi pionieri del cinema: Georges Méliès faceva dei documentari su artisti circensi ed i fratelli Lumiere fiction sugli operai.

–        Stai già lavorando a questo tuo nuovo progetto? Hai contattato attori o punterai più sul documentario.

“Sono in una fase di riorganizzazione delle emozioni che finora ho accolto: troppo presto per parlare del film. Ho la speranza di potere avere nuovamente come direttore di fotografia il portoghese Rui Poças che ha curato le immagini di Introduzione all’oscuro”.

–        E’ molto difficile vedere prodotti d’autore in circuiti tradizionali. Ci può essere una soluzione?

“Le nostre sono opere di nicchia che trovano spazio nei Festival e riescono ad esistere proprio per il passaparola tra gli appassionati. Mi reputo particolarmente fortunato perché ho spazio in queste manifestazioni, soprattutto a Venezia dove per la sensibilità di Barbera ho potuto fare conoscere più a fondo il mio lavoro. Spero che il mio nuovo film possa trovare spazio in una distribuzione non dico commerciale – non lo vorrei nemmeno – ma in circuiti d’essay più vasti. Se si potesse di fare conoscere meglio opere del cinema non tradizionale, sarebbe una vittoria per la cultura.”

–        Süden (2008) ti ha fatto conoscere a livello internazionale e ti ha anche permesso di incontrare Hans Hurch. La ritieni la tua opera migliore?

“Sicuramente; è un film molto particolare che forse ora a 40 anni, con maggiore vissuto, farei in maniera differente. Ma riguardandolo non mi delude.

–        Nei tuoi film la musica, soprattutto quella contemporanea, ha molta importanza. Come ti sei avvicinato a questo mondo, a Bartock. Perché lo sentivi vicino a te o casualmente?

“Tutta la vita è una casualità, ma da sempre mi sono interessato della sua musica e in generale di quella dell’Europa del Est senza trascurare la tradizione folkloristica. Mi sono appassionato alla sua musica quando ho sentito dei brevi brani per pianoforte scritti per i più giovani, raccolti sotto il nome di Mikrokosmos – 153 pezzi progressivi suddivisi in sei volumi, scritti fra il 1926 e il 1939 – che mi hanno aiutato anche a capire i rapporti tra musica popolare e contemporanea. E’ stato utilissimo anche nel montaggio di Papirosen (2011) dedicato alla mia famiglia.

–        Parlaci di questo film che, credo, ti abbia molto coinvolto emotivamente.

“Lo ho realizzato in 12 anni e con più di 200 ore di girato; è un Mosaico Bizantino. Trovare questo tipo di montaggio è stato davvero un mistero e di questo parliamo con Hans in Introduzione all’oscuro. Lui ha trascorso varie notti a guardare il film ed io, invece che prendere appunti, ho ripreso il suo lavoro. Bartok è stato fondamentale per creare questo quadro della mia famiglia unendo filmati di famiglia anche di 40 anni orsono con quanto da me ripreso.”

Papirosen, pur essendo il film apparentemente più personale di Gastón Solnicki perchè racconta della sua famiglia – splendida la saggezza e modernità della nonna nonché l’apporto del padre – riesce a donare un quadro dell’Argentina differente, dove immigrati ebrei avevano trovato rifugio e una nuova Patria pur non dimenticando le proprie origini, un paese in cui alcuni avevano anche fatto fortuna. A parte la bellezza di certi filmati familiari – c’è ripreso anche Gastòn ragazzo – il film riesce ad essere divertente, drammatico, difficile, gioioso: proprio come la vita.

Ancora pochi titoli, ognuno rappresenta un capitolo di un percorso d’autore sempre originale. In attesa del suo prossimo film, lo lasciamo alle sue incombenze di giurato della cinquantaquatresima edizione del KVIFF di Karlovy Vary.

 

 

 

Postato in Festival.

I commenti sono chiusi.