Festival di Karlovy Vary KVIFF 2019 – Intervista a Casey Affleck

di Furio Fossati.

A due anni dalla sua partecipazione al KVIFF per ricevere il Premio del Presidente del Festival, Casey Affleck è tornato a Karlovy Vary per accompagnare il suo secondo film come regista, Light of My Life (2019), presentato solo alla Berlinale.

–        Seconda volta a Karlovy Vary, ambedue le volte con film complessi e interessanti che il pubblico ha accettato molto bene. A Ghost Story (Storia di un fantasma, 2017) era diretto da David Lowery, con cui hai collaborato varie volte.

“Era la quarta volta che lavoravamo assieme, e l’empatia credo si sentisse. Ricordo Senza santi in paradiso (Ain’t Them Bodies Saints, 2013) che Lowery aveva portato a Karlovy Vary sei anni orsono: lo scorso anno sono stato coprotagonista al fianco di Robert Redford della criminal story Old Man and the Gun (2018). Mi piacciono i mondi che David crea mi sento a casa mia. Quando giro questi tipi di film, non penso a quanto successo potranno avere con il pubblico, ma cosa posso imparare da loro e quanto mi possano davvero interessare.

–        Light of My Life è sempre un’opera complessa, è un vero e proprio disaster movie senza rovine di palazzi sgretolati, ma più intimamente drammatico.

“Vero, è ambientato tra le macerie morali dell’umanità, è un film che racconta di sopravissuti ma che dal genere resta distaccato, preferendo una lettura da cinema indipendente che dona maggiore libertà sia nella scelta della storia che nel suo sviluppo.

–        A tale proposito, l’inizio non lascia dubbi.

“Ho pensato molto sulla scelta di proporre un lungo momento narrativo in cui i protagonisti erano le parole dette dal padre quasi come raccontasse una fiaba della buonanotte, il padre che si capisce molto protettivo, la figlia che pende dalle sue labbra. Pochissimi movimenti di macchina, sensazione di serenità ma, nello stesso tempo, il sentore che ci sia qualcosa di anomalo. Infatti, il mondo attorno ha subito l’attacco di un virus che ha falcidiato milioni di persone, soprattutto quasi la totalità delle donne.”

–        Essendo l’unico sceneggiatore, tutto è stato scritto da te.

“E’ stato il lavoro fondamentale e probabilmente che mi ha donato maggiore gratificazione. Attraverso le parole del padre la figlia scopre il mondo e la Storia che non può conoscere perché chiusa in quel protettivo mondo che suona anche come privazione della libertà, rielaborando la conoscenza per adattarla al loro universo a due. Ma ho ‘scritto’ anche i lunghi silenzi dove la Natura è la vera protagonista, dentro la quale i due si sentono tranquilli, quasi protetti. Ogni cosa è rappresentata in maniera realistica, un albero è un albero, la paura è la paura, le situazioni di tensione sono tangibilmente proposte.

–        Non si vive l’atmosfera del dramma, ma si assapora una certa serenità.

“Il padre ha creato una nuova normalità, una vita compatibile con la realtà che li attornia, un mondo in cui sono tutti uno contro l’altro per la legge della sopravvivenza. I piccoli gesti di una vita che prosegue nonostante tutto fanno immaginare un futuro in cui la speranza trova il suo posto.”

–        La scelta di vivere i momenti più intensi tra padre e figlia all’interno di una tenda, montata anche quando si è ‘protetti’ all’interno di una casa abbandonata ma non diroccata?

“La forma fa ricordare il ventre materno, un luogo in cui chi deve ancora nascere vive con serenità. Il padre ha in sé tutte le responsabilità e i compiti anche della madre, ricostruisce un ambiente molto limitato ma in cui nulla di negativo può succedere.

Lì si vivono anche i momenti più difficili per l’uomo, quando la figlia undicenne inizia il percorso mentale ed ormonale che la porterà ai problemi legati alla pubertà”

–        La figlia sa dei rischi che correrebbe se fosse riconosciuta come femmina?

“Per lei sono più regole da rispettare che le impone con dolcezza il padre che non la vera comprensione di quanto accada. Quando vanno a ritirare il mangiare contingentato tutti gli altri sono uomini, e lei si veste da ragazzino per evitare anche problemi sessuali con maschi che non hanno da tempo più donne. Ma è l’unica realtà che conosce e la vive senza troppi drammi.”

–        Non hai paura che un film praticamente a due personaggi, in cui non ci sono scene d’azione né colpi di scena possa stancare dato anche la durata di un paio di ore?

“Questo è il film che ho voluto, ho prodotto, ho scritto, ho diretto, ho interpretato. Mi prendo tutte le responsabilità del caso ma quello di cui sono sicuro è che quanto realizzato era quello che io desideravo davvero, senza concessioni per le grosse platee, senza cadute nel melodramma, senza scivoloni verso un qualche cosa che non si identifica con me. E’ un’opera molto personale: se sono riuscito nel mio intento, il pubblico mi seguirà, altrimenti Light of My Life rimarrà comunque per me una delle più belle esperienze artistiche che abbia vissuto.”

–        Difficile la scelta della figlia del protagonista?

“Molto sofferta, ma Anna Pniowsky ha dimostrato di essere la scelta giusta. Molto più matura dei suoi 12 anni di quando abbiamo girato, ha iniziato a recitare in televisione in piccole parti nel 2014. Questo per lei è il vero primo, importante ruolo e lo ha saputo affrontare con naturalezza e grande professionalità: viso da ragazzina ma grinta di smaliziato attore. Difficile recitare in un film in cui sei quasi sempre inquadrato, ma lei non ha sentito il peso dell’obiettivo che la ‘fissava’ sempre.”

Definirlo un piccolo film è assolutamente limitativo e sbagliato. Ha una messa in scena priva di fronzoli ma con una grande forza emotiva che conquista il pubblico. A questo va aggiunta la bravura dei due protagonisti (meno convincente nel ruolo della madre la solitamente brava Elisabeth Moss) che vivono e non interpretano i loro personaggi.

Su tutto, la capacità di raccontare senza spiegare tutto e lavorando sul non detto: elementi essenziali per lo sviluppo della storia, senza mai dire tutto e lasciando allo spettatore il piacere di costruire il film secondo la propria sensibilità.

 

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