Karlovy Vary International Film Festival 2018 – Dopo la Rivoluzione: Intervista a Mohamed Ben Attia

di Massimo Lechi.

Presentato alla cinquantatreesima edizione del Karlovy Vary International Film Festival nella sezione Horizons, dopo il passaggio alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes, Dear Son (Weldi) segna il ritorno dietro la macchina da presa, ad appena due anni dal fortunato esordio Hedi (Inhebbek Hedi), di Mohamed Ben Attia, uno dei più promettenti nomi del cinema arabo.

Al centro di questa dolente e asciutta opera seconda, ancora una volta lo smarrimento della piccola borghesia tunisina, uscita ammaccata e confusa – come del resto l’intera società – dalla rivoluzione che portò, nel gennaio 2011, alla caduta di Zine El-Abidine Ben Ali e alla repentina trasformazione del paese in un limbo nel quale il sogno del futuro e la paura del presente paiono elidersi a vicenda.

Protagonista è Riadh (un convincente Mohamed Dhrif), padre e marito onesto e fondamentalmente grigio, prossimo alla pensione, che un giorno si trova a dover fare i conti con una scoperta agghiacciante: Sami (Zakaria Ben Ayed), il suo unico figlio, da tempo affetto da un profondo e misterioso malessere, a pochi giorni dagli esami di maturità è fuggito in Siria per arruolarsi nell’ISIS. Sconvolto, incapace di concepire se stesso, il proprio matrimonio (con Nazli, interpretata da Mouna Mejri) e il proprio ruolo nella società senza la persona su cui aveva riversato ogni aspirazione, Riadh decide di andare a recuperare il ragazzo là dove non ci sono che morte e terrore.

Nel filmare l’odissea di un padre perso nel caos silenzioso di un mondo ormai privo di punti di riferimento, il quarantenne Ben Attia si conferma narratore acuto e sensibile, attento al disegno psicologico dei propri personaggi e assai abile nel rendere la complessità del contesto socio-politico della Tunisia contemporanea attraverso il filtro della lezione dei fratelli Dardenne – qui co-produttori insieme alla Nomadis Images di Dora Bouchoucha.

 Il rapporto tra generazioni – tra padri e figli – è un tema centrale in entrambi i tuoi film. Un rapporto conflittuale, tragico in un certo senso, ma mai violento, e all’insegna dell’incomunicabilità.

Le generazioni comunicano in maniera differente e si fraintendono. Così, in questo genere di rapporto, a padri e figli capita di perdersi.

In Hedi il conflitto era tra un figlio in cerca di sé e una madre molto forte, prevaricatrice. In Dear Son invece il punto di vista è quello di un padre che perde il proprio figlio, e con esso il proprio equilibrio.

Sì, ma in tutti e due i casi c’è molto amore, sia da parte della madre di Hedi sia da parte del padre di Dear Son. Ed è un amore che comprende la mancanza di fiducia nei confronti dei figli e la paura di non aver dato loro le migliori opportunità. Per questo la reazione della madre di Hedi è aggressiva, perché lei è convinta delle proprie scelte, ma è anche di smarrimento quando è in gioco la felicità di suo figlio. In Dear Son, l’amore è un qualcosa di egoistico: il padre ama innanzitutto se stesso ed è convinto che la sua felicità ruoti intorno alla vita di suo figlio. E quando lo va a cercare, cerca se stesso.

“Felicità” è una parola chiave. I genitori dei due film la identificano con la loro stessa vita, con il loro modo di vivere. E quando i figli lo rifiutano, nasce la crisi.

Sì, entrambi i personaggi dei genitori hanno un’idea molto soggettiva della felicità. Per loro la felicità ha a che fare con la famiglia, con il matrimonio, con la stabilità. Ed è un’ossessione, ancor prima che un dovere o un obbligo. Un’ossessione da trasmettere ai figli.

Il conflitto drammatico è insomma dato dallo scontro tra la mentalità granitica dei genitori e la confusione, l’incertezza dei figli. Sembra che sia tutto molto più difficile per le giovani generazioni tunisine.

Quelli della mia generazione in realtà non sanno se fosse più difficile prima, per i nostri padri. Sono abbastanza sicuro che nella vita di tutti i giorni loro abbiano dovuto affrontare gli stessi problemi con cui facciamo i conti noi oggi. La differenza è che ora si parla di più di tutto, in particolare delle ansie e delle preoccupazioni. Abbiamo un modo diverso di comunicare il nostro malessere.

E’ cambiato il modo di comunicare, immagino, perché a partire dalla rivoluzione che ha rovesciato Ben Ali è cambiato il quadro della vostra società.

E’ cambiato il paese e allo stesso modo è cambiata la mentalità. Prima c’era come un falso accordo, una falsa armonia in cui le cose bruciavano dentro, ma non si trovavano mai le parole per definire e comunicare questa sensazione. Quello che è diverso dopo la rivoluzione è proprio la nuova libertà di esprimersi e di pensare. Di colpo si discute di cosa può essere il matrimonio, di cosa può essere la paternità… Si è liberata la parola e, quindi, anche il nostro modo di vedere le cose.

Hedi era ambientato subito dopo la rivoluzione, mentre la storia di Dear Son si svolge nei giorni nostri. In questi pochi anni, in Tunisia, sono successe tantissime cose e tutte all’improvviso. E la situazione, al momento, non è certo semplice.

Sì, tutti i cambiamenti che non ci sono stati in passato sono avvenuti tutti in una volta. E’ un fatto storico. Il risultato non è quello che ci aspettavamo, ma ciò che è capitato è stato comunque enorme: come una pentola che bolle e che all’improvviso esplode. Ora ci stiamo scoprendo l’un l’altro: scopriamo i nostri vicini, i nostri quartieri, scopriamo questioni su cui, prima della rivoluzione, non pensavamo nemmeno ci fosse necessità di parlare.

Nonostante i tuoi film raccontino questi stravolgimenti e queste lacerazioni, il tono che scegli è sempre molto pacato. Eviti il melodramma con grande cura.

Ma niente è calcolato. Non evito apposta il melodramma, però quando scrivo e poi quando giro, non mi impongo con la forza cose che non mi toccano, che non mi commuovono. E’ una questione d’egoismo, purtroppo: cerco di fare quello che, da spettatore, vorrei vedere, sperando che possa arrivare al pubblico.

Questo ti pone in contrasto con larga parte della tradizione cinematografica araba. Tu e molti altri giovani registi maghrebini – penso a Sofia Djama, per esempio – state raccontando i vostri paesi attraverso storie e personaggi semplici, con sobrietà. Pensi che ciò sia dovuto all’influenza del cinema europeo?

Onestamente? Penso di sì. Io amo vedere film da ogni parte del mondo e probabilmente sono influenzato dal lavoro di molti registi francesi, europei e americani. Assorbo le cose che mi emozionano e cerco di riprodurle.

I Dardenne, che sono i tuoi produttori, ti hanno influenzato?

Loro mi hanno detto: “devi muovere la macchina da presa esattamente come noi altrimenti non possiamo produrti nulla!” (ride) No, ovviamente scherzo…

“Partire”, oltre a essere il titolo di un romanzo di Tahar Ben Jelloun, è una parola che accomuna le storie dei tuoi protagonisti. Sia Hedi che Sami vogliono andarsene.

Sì, vogliono partire, come molti dei nostri giovani. Sette-otto anni dopo la rivoluzione, è un peccato vedere quanti di loro continuino a sognare di lasciare la Tunisia… Naturalmente può anche essere una cosa buona, perché il mondo appartiene a tutti – e non è solo un’idea, ma un fatto. Però spesso portano con sé le loro paure e finiscono col non fare nulla di diverso da quello che facevano nel loro paese.

Partire è una scelta.

Certo, è una scelta. Malgrado tutto, è una scelta personale. Hedi però non è partito… (ride)

Ma Sami, in Dear Son, sì. Questo significa che i tuoi protagonisti, come forse tanti giovani tunisini di oggi, non sono del tutto passivi.

Decidono di scegliere. Decidono di prendere in mano la loro vita.

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