“Ready Player One” di Steven Spielberg

di Aldo Viganò.

Da una parte, c’è l’universo virtuale di OASIS cui si accede con un visore speciale inventato da James Donovan Halliday (Mark Rylance), il quale prima di morire ha scatenato una gigantesca caccia al tesoro con la promessa che chi avesse individuato le tre chiavi nascoste nel videogioco sarebbe diventato ricco e padrone assoluto di quel mondo parallelo frequentato ormai da tutti; dall’altra, c’è la squallida realtà quotidiana dove le persone vivono ammassate in grattacieli composti da roulotte e containers accatastati in verticale.

Come vuole il romanzo di Ernest Cline, da cui Spielberg ha tratto con tre anni di lavoro al computer il proprio film, l’azione si svolge nel prossimo 2045 e mette in rapporto speculare un luogo fantastico abitabile da ciascuno tramite il proprio “avatar” con la melanconica vita nella città di Colombus (Ohio) dove soprattutto i giovani devono combattere con la solitudine e anche con l’arroganza del potere costituito.

Accade così che la fantasia di chi non si rassegna alla mancanza di un futuro scorra in modo sincrono e parallelo alla desolazione quotidiana; che l’immaginazione prenda il sopravvento sulla realtà, come nel film avviene per tutti, ma in modo particolare, appunto, per i suoi giovani protagonisti ai quali Spielberg regala la possibilità di saper ancora sognare e amare.

“Ready Player One” è un film che accumula nell’arco di due ore gran parte dei temi da sempre cari al regista di “Jurassic Park” (compreso quello della fascinazione mai dismessa per il “vintage”), ma questa volta qualcosa non deve aver funzionato completamente, se dagli elaboratissimi fotogrammi di un’opera con evidenza molto sentita dall’ormai ultrasettantenne regista statunitense emerge con prepotenza il rischio di non saper raccontare la sua storia a ogni tipo di spettatore.

In modo particolare, stavolta Spielberg lascia di fatto che il mondo esplicitamente fracassone e fumettaro del “computer graphic” e della “performance capture” (già ampiamente anche da Spilberg sperimentato in “Le avventure di Tintin” e in “Il Grande Gigante Gentile”) prenda il netto sopravvento sulla componente “umana” del suo cinema migliore, finendo così col soffocare nel frastuono digitale l’autonomia dei personaggi, con i loro rapporti anche conflittuali e soprattutto con i  loro reciproci sentimenti d’amicizia, di rivalità e anche d’amore.

La sensazione è che “Ready Player One” sia stato scritto e pensato soprattutto sulla scia di proprie esperienze personali, sortendone un film che riesce a rivolgersi solo a chi è cresciuto nel culto degli anni Ottanta, quando nacquero i videogame citati in abbondanza (certo per il piacere di chi sa riconoscerli) dal romanzo di Cline ma anche da Spielberg, il quale vi ha aggiunto di proprio un’altra ampia manciata di citazioni cinematografiche che vanno da “Wargame” a “Ritorno al futuro”, sino al “Shining” di Stephen King  e Stanley Kubrick.

Tutto questo fa inesorabilmente dell’ultimo film di Spielberg (ultimo solo per uscita sugli schermi, perché nei ritagli di tempo concessigli dalla complessa elaborazione degli effetti speciali il regista ha girato anche il classicissimo “The Post”) un’opera che si rivolge soprattutto agli “iniziati”, accettando più o meno consapevolmente il rischio di allontanare (forse anche di annoiare) tutti gli altri. E soprattutto coloro che sono cresciuti in un’epoca in cui le immagini in movimento venivano identificate con la funzione estetica e narrativa dello specifico linguaggio cinematografico.

Che cosa ha infatti da spartire un “cinefilo” con il bombardamento di suoni e di effetti visivi dei tanti combattimenti che si svolgono su OASIS? E che “simpatia” può egli provare per quegli “eroi” virtuali che sembrano vivere solo nel gioco dello sdoppiamento esaltato dagli effetti del 3D? Ritengo null’altro che il gusto ammiccante delle citazioni. E per questo temo che questa volta Spielberg abbia fatto male i conti con le ambizioni onnivore del suo cinema, non accorgendosi che, se agli appassionati del cinema poco interessano i fuochi d’artificio dei troppi effetti speciali, anche ai cultori dei videogame in fin dei conti nulla importa di vedere il proprio universo trasferito sullo schermo per essere fruito collettivamente in una sala.

La conseguenza è infatti che, nonostante tutto il suo virtuosismo tecnico, “Ready Player One” finisca col creare sullo schermo, con il bombardamento delle sue immagini ipercinetiche, non tanto un universo autonomo e autosufficiente, quanto invece un corto circuito tra due universi inconciliabili (il cinema e i videogame) che, come la caccia al tesoro scatenata da Halliday, non può avere né vinti né vincitori, ma riesce solo a far precipitare il film in un arido e ridondante “loop”, nel quale tutto è condannato inutilmente a ripetersi senza fine. Sino alla noia.

 

READY PLAYER ONE

(Ready Player One, USA 2018)  regia: Steven Spielberg – soggetto: dal romanzo di Ernest Cline – sceneggiatura: Zak Penn e Ernest Cline – fotografia: Janusz Kaminski –  musica: Alan Silvestri – scenografia: Adam Stockhausen – costumi: Kasia Walicka-Maimone – montaggio: Sarah Broshar e Michael Kahn.  Interpreti e personaggi :  Tye Sheridan (Wade Watts / Parzival), Olivia Cooke (Samantha “Sam” Cook / Art3mis), Ben Mendelsohn (Nolan Sorrento / Sorrento), T.J.Miller (i-R0k), Simon Pegg (Ogden Morrow / Il curatore), Mark Rylance (James Donovan Halliday / Anorak), Lena Whaite (Helen / Aech).  Distribuzione: Warner Bros. – durata: due ore e 20 minuti

 

 

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