“Quello che non so di lei” di Roman Polanski

di Aldo Viganò.

Si potrà anche dire che Polanski fa sempre lo stesso film, ma allora si dovrà aggiungere subito dopo che per fortuna continua a farlo. Perché l’ormai ottancinquenne regista polacco resta uno dei pochi registi odierni a saper raccontare con il cinema: cioè, a costruire delle storie e dei personaggi essenzialmente attraverso la forza visiva delle immagini e dei ritmi di montaggio che permettono a loro di vivere in modo autentico sul grande schermo.

Il soggetto è questa volta tratto da un romanzo di successo della francese Delphine de Vigan, edito anche in Italia e sceneggiato in collaborazione con il regista Olivier Assayas (quello di “Personal Shopper”, per intenderci)  E ha al centro l’ambiguo rapporto tra una celebre scrittrice in crisi creativa e una giovane ammiratrice che poco alla volta s’impadronisce della sua vita e – forse – anche della sua arte. Un incontro-scontro tra due personaggi interdipendenti, dal quale Polanski ricava un film complesso e intrigante che ricorda il suo precedente “Venere in pelliccia”, cita “L’uomo nell’ombra” e in filigrana riprende certi toni di “Rosmary’s Baby”.

“Quello che non so di lei” (in originale, “Da una storia vera”) è di fatto un thriller che si consuma in un paio d’interni o – forse anche – un horror della coscienza che si definisce attraverso la recitazione di due splendide attrici (Emmanuelle Seigner e Eva Green) e la sempre più astratta relazione tra i loro personaggi: la romanziera arrivata e l’ambiziosa ghost-writer” che sembra voler a tutti i costi uscire dall’anonimato. Ma, nonostante l’apparenza, il film non ha nulla a che fare con l’archetipo di “Eva contro Eva”. Non è cioè una storia di arrivismo e di rivalità generazionale. Soprattutto perché questi temi, pur latenti nelle  pagine letterarie della de Vigan, evidentemente non interessano a Polanski. Il film non è neppure una vicenda di “stalking” tra una lettrice e il suo autore preferito, come la trama a tratti suggerisce e come lascia supporre la citazione in esergo al romanzo di “Misery” di Stephen King.

Con i suoi fluidi movimenti della cinepresa e con i soventi imprevedibili stacchi di montaggio, infatti, Polanski mette in scena ancora una volta una sua personale riflessione sul principio d’identità, costringendo le due protagoniste del film a porsi e a porre allo spettatore i quesiti fondamentali dell’esistenza: chi sono? cosa faccio? dove vado? E sono proprio questi interrogativi che, emergendo dai loro corpi e dal loro comportamento, trasformano tutta la vicenda raccontata in un’implacabile autoanalisi dell’artista, facendo della nuova venuta non solo un minaccioso alter-ego, ma lo specchio nel quale riflettere le proprie incapacità e paure, anche i propri desideri.

A proposito di “Quello che non so di lei” qualcuno ha chiamato in causa “Persona” di Ingmar Bergman. Ma al di là – forse – di qualche assonanza tematica, il cinema di Polanski si muove su un terreno che è agli antipodi di quello del regista svedese. Niente psicologia, ma classica concretezza comportamentale. Le due facce delle protagoniste giungono anche qui alla fine a sovrapporsi, ma ciò avviene senza alcun allegorico didascalismo, bensì solo attraverso un complesso percorso narrativo affidato soprattutto alla fisicità delle due attrici, le quali sono spinte così a diventare e a essere contemporaneamente vittime e carnefici una dell’altra. Se Eva Green invade sempre più la vita di Emmanuelle Seigner sino al punto di diventarne di fatto l’assassina, anche la Seigner comunque sta al gioco e cerca di trarre dal comportamento dell’altra quella ispirazione creativa che temeva di aver perduta.

E il gioco del doppio diventa così il vero soggetto del racconto, spinto da Polanski tanto avanti che alla fine è praticamente impossibile determinare chi è la vera autrice del libro nelle cui pagine è stata trascritta la loro esperienza. Perché a scrivere quel nuovo romanzo che racconta “una storia vera” sono state – forse – entrambe. Anzi, probabilmente una sola. Ma chi? E su questa dichiarata ambiguità il vecchio regista di origine polacca costruisce un labirinto che è insieme perfido e ispirato, divertito e inquietante.

Sarà sempre lo stesso film, è vero. Ma il gorgo del rapporto tra l’autonomia creativa e la realtà vissuta, nel quale Polanski ancora una volta ci trascina, ha l’affascinante consistenza della più libera e assoluta novità.

 

 

QUELLO CHE NON SO DI LEI

(D’après une histoire vraie, Francia – Belgio – Polonia, 2017)  Regia: Roman Polanski – soggetto: dal romanzo di Delphine de Vigan – sceneggiatura: Olivier Assayas e Roman Polanski – fotografia: Pawel Edelman  – musica: Alexandre Desplat – scenografia: Jean Rabasse – montaggio: Margot Meynier. Interpreti e personaggi: Emmanuelle Seigner (Delphine Dayrieux), Eva Green (Elle), Vincent Perez (François), Dominique Pinon  (Raymond), Camille Chamoux (Oriane). distribuzione: 01 Distribution – durata: un’ora e 50 minuti

 

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