“Le cose che verranno” di Mia Hansen-Løve

di Aldo Viganò

Sgomberiamo innanzitutto il campo da un possibile equivoco nel quale sono caduti alcuni recensori dell’ultimo film firmato da Mia Hansen-Løve, che per curiosa coincidenza giunge sugli schermi italiani in contemporanea con quello (Personal Shopper) di Olivier Assayas, suo compagno nella vita privata: non basta fare un film in cui si parla di filosofia per diventare automaticamente l’erede di Eric Rohmer.

Per aspirare di diventarlo, infatti, bisognerebbe almeno condividere la leggerezza stilistica e la tensione morale che sottendono il sottile gioco delle citazioni filosofiche di opere quali La mia notte con Maud o Racconto di primavera. Ma, diciamolo subito, queste qualità sono di fatto estranee a Le cose che verranno. Se non altro perché non appartengono all’universo narrativo ed estetico nel quale s’inscrive il film della trentaseienne Hansen-Løve, la quale vi racconta una storia che appartiene molto più da vicino a una costante del suo cinema (da Tout est pardonné a Eden) che a quello di Rohmer: cioè, racconta della perdita di qualcosa ritenuta fondamentale e della conseguente difficoltà di  costruire da qui una propria nuova prospettiva esistenziale.

Anche per Nathalie, apprezzata e appassionata insegnante di filosofia in un liceo parigino, tutto precipita da un giorno all’altro. Dopo venticinque anni di matrimonio, il marito le confessa di amare un’altra donna con la quale intende andare a vivere e a questo inaspettato abbandono si aggiungono ben presto la morte della madre che lei è stata costretta a ricoverare in una pur lussuosa casa di riposo e la scelta unilaterale della sua casa editrice di chiudere la collana di opere da lei sino allora curata.

Comunque, soddisfatta del proprio lavoro e soprattutto del suo ottimo rapporto con gli studenti, Nathalie non si dispera. Anzi, lei avverte nei nuovi avvenimenti, uniti al fatto che ormai i due figli sono in età per andare a vivere da soli, una vivificante prospettiva di libertà, che la spinge a riprendere i rapporti con il suo allievo prediletto, accettando di essere ospitata nell’isolata casa di campagna dove il giovane vive insieme con la sua compagna e altri ospiti colti e intelligenti.

Gli anni però passano anche per lei, e le cose inesorabilmente si trasformano con il trascorrere del tempo. Così come in gioventù si era iscritta al partito comunista per poi aderire a idee più problematiche, Nathalie si sente ora sempre più propensa a scelte di vita “borghesi”, che si evidenziano soprattutto al confronto tra il proprio modo di pensare e la dichiarata ideologia anarchico-radicale fatta propria dal suo pupillo. E allora? Che fare?

Interpretata con la consueta professionalità e finezza emotiva da Isabelle Huppert, Nathalie finisce con l’accettare, tra una citazione dell’amato Rousseau e la lettura di un pensiero di Pascal, il nuovo stato che le deriva dall’età e del trascorrere degli anni. In un film in cui le scene molto dialogate sono intervallate da viaggi in treno, in autobus o in macchina – accompagnati da un po’ stucchevoli e sin troppo simboliche canzoni di commento – la vita trascorre, lasciandosi dietro un velo di malinconia; ma anche aprendosi alla consapevolezza di un presente non privo di sua vera dolcezza, come testimonia l’ultima sequenza del film in cui la professoressa di filosofia, ormai diventata nonna, cerca di far addormentare il nipotino, cantandogli in francese una melodiosa ninna nanna composta di versi pieni d’amore.

Come si addice a un film intitolato in originale L’avenir e che nelle interviste la regista e sceneggiatrice dice esserle stato ispirato dal ricordo dei suoi genitori (entrambi insegnanti di filosofia), quella che infine trionfa non è la problematicità del pensiero, quanto l’oggettività delle leggi naturali della vita. Un’accettazione, quella di Nathalie, che sa un poco di conformismo, ma che soprattutto nella seconda parte del film Mia Hansen-Løve coniuga in modo sovente divertente sui ritmi del comportamento della nera e grassa gatta che apparteneva alla mamma di Nathalie e che, portata da costei in campagna, dapprima si orienta solo per istinto nella novità degli spazi aperti e poi, sempre per istinto, non ha difficoltà di accettare i confort offertile dalla calda dimora dei nuovi padroni che l’hanno adottata, che sono poi l’allievo e la sua compagna.

Così va la vita degli esseri umani come dei gatti. Forse anche nella realtà. Di sicuro, finisce in questo modo in un film con le case piene di libri come questo e dai toni fondamentalmente “radical-chic” quale è L’avenir, il cui limite principale consiste nell’essere interamente costruito intorno ai passaggi emotivi e alle evoluzioni di pensiero della protagonista. Il risultato è, infatti, quello di relegare così in una zona alquanto opaca, e sovente sfocata, tutti gli altri personaggi che intorno a lei ruotano e cercano invano di trovare un proprio spazio autonomo. Fatta eccezione, ovviamente, della gatta, che a tutto si sa sempre adattare e tutto osserva, impassibile, con i suoi verdi occhi luminosi.

 

LE COSE CHE VERRANNO

(L’avenir, Francia – Germania, 2016)  Regia e sceneggiatura: Mia Hansen-Løve – Fotografia: Denis Lénoir – Scenografia: Anna Falguères – Montaggio: Marion Monier. Interpreti: Isabelle Huppert (Nathalie Chazeaux), André Marcon (Heinz, suo marito), Roman Kolinka (Fabien), Edith Scob (Yvette Lavastre, sua madre), Sarah Le Picard (Chloe, sua figlia), Solal Forte (Johann, suo figlio). Distribuzione: Satine Film – Durata: un’ora e 40 minuti

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