“Elle” di Paul Verhoeven

di Aldo Viganò.

Elle è uno dei pochi film di questa avara stagione che meritano assolutamente di essere visti. E questo non solo (sebbene ne sarebbe già una ragione sufficiente) per l’interpretazione “magistrale” d’Isabelle Huppert, ma anche per la regia “giovanilistica” del quasi ottantenne Paul Verhoeven; nonché per il fatto che si tratta di un’opera cinematografica d’autore abitata da personaggi tutti interessanti (compreso il gatto) e interpretati da attori di ottima qualità, scelti con spirito creativo da un “casting” che ne asseconda l’ambiguità narrativa di fondo.

Tutti in questo inventivo film dal tono sapientemente tragicomico non sono solo quello che sembrano. E per questo non vanno forse troppo raccontati, se non si vuole togliere allo spettatore ignaro uno dei piaceri che Elle promette: cioè, la sorpresa, il continuo spiazzamento di prospettiva.  Compiutamente realizzandolo.

A ben vedere, ciò non riguarda solo l’identità (che Verhoeven in fin dei conti non fa nulla per nascondere troppo a lungo) dello stupratore travestito come un personaggio dei fumetti che appare nella prima sequenza, ma soprattutto attiene al comportamento seguente della sua vittima (la Huppert, appunto) che tende a fare un ambiguo segreto (tra lei e il suo gatto) quanto è accaduto quel pomeriggio nella sua casa; per poi, però, raccontarlo una sera, come un fatto di poca importanza, che comunque non vale la pena di denunciare alla polizia (e in seguito si saprà perché) nel corso di una cena tra amici.

A poco a poco si apre così per il film una serie di rivelazioni, tra il drammatico e il comico, su quella famiglia nel cui passato, si scopre, ci fu un padre (sempre della Huppert: quando era bambina) condannato all’ergastolo per aver assassinato nello stesso giorno decine di adolescenti, ma anche la costruzione di una carriera da direttrice di una società di videogiochi di successo; mentre il presente (ancora della Huppert) è quello della figlia adulta di una eccentrica madre destinata a morire proprio quando sta per sposare il proprio atletico mantenuto, e della giovanile mamma (il marito divorziato è un professore, narcisista autore di romanzi) di un ventenne che accetta senza dubbio alcuno (sembra) il fatto che la sua ragazza partorisca un bambino dalla pelle nera, come quella del suo migliore amico.

Ma le eccentricità di quel nucleo famigliare, esteso agli amici e ai vicini di un elegante quartiere residenziale della Francia, non si fermano qui, perché non si tarda  a sapere che la Huppert è anche l’amante del marito della sua migliore amica; che questa, dopo di aver partorito un bimbo morto nello stesso ospedale in cui la Huppert metteva al mondo il proprio figlio, lo aveva voluto personalmente allattare; che la fervente cattolica, la quale festeggia il Natale nell’edificio accanto, nasconde un segreto inaspettato; che l’episodio dello stupro si replica ora tra il sogno e la realtà; che qualcuno manipola con esplicite allusioni erotiche il videogioco cui lo staff della Huppert sta lavorando… E così via di seguito, perché le citazioni potrebbero continuare in un crescendo narrativo fatto di verità e di menzogne, di momenti fortemente drammatici (le morti dei due genitori della Huppert, tra l’altro) e di inserti esplicitamente erotici o di parentesi narrative che hanno il sapore dello sberleffo.

Quella che emerge, così nel corso del film, è la rappresentazione di un mondo decisamente “fuori di sesto”, ma anche luogo autenticamente vitale in cui tragico e comico, erotismo e sofferenza, il dolore e la risata possono tranquillamente convivere: tanto più perché all’origine di tutto, forse, c’è stato l’orribile delitto (con ruolo di peccato originale) di quel serial killer, senza dichiarata motivazione.

È, appunto, sul volto e nel corpo mantenuto ancora in splendida forma (a sessantaquattro anni e tre figli!) d’Isabelle Huppert, che questo allegro inferno esistenziale viene mantenuto in equilibrio dalla regia di un Verhoeven in stato di grazia. Tutto è vero e tutto e falso nello stesso tempo in questo racconto cinematografico, tratto da un romanzo non memorabile. Così come la recitazione della Huppert è sempre insieme la testimonianza della prestazione dell’ultima diva del cinema contemporaneo, tendente a piegare ogni personaggio a immagine e somiglianza del proprio superbo passato, e la grande prova di un’attrice che nel corso degli anni ha sempre più saputo arricchire la personalità degli esseri umani che è stata chiamata a interpretare con quella complessa ambiguità appresa alla scuola dei suoi maestri, primo tra tutti il non dimenticato Claude Chabrol.

Certo, proprio a causa della forte presenza della Huppert, anche Elle è un film che corre costantemente il rischio di essere “mangiato” dall’invadenza del divismo. Ma questo, per fortuna, non accade quasi mai perché a equilibrare i ruoli provvede in modo determinante la regia di Verhoeven. È soprattutto per merito della direzione del regista olandese, infatti, oltre che per la bravura di tutti gli altri interpreti, che Elle riesce a essere sino in fondo un film sempre collettivo e mai coniugato solo a immagine e somiglianza della sua protagonista. Un film che fa dell’ambiguità narrativa la vitale matrice dei rapporti tra gli esseri umani. Una rara opera cinematografia che, pur rischiando a ogni sequenza di cadere nel tranello del virtuosismo o della parodia, riesce sempre a evitare questo baratro e a fare proprio della paura del vuoto la cifra qualificante della contemporaneità esistenziale, oltre che, soprattutto, il segno stilistico di un cinema che non si rassegna ad appiattirsi, comunque, sulla ripetizione del già dato.

È, appunto, tutto questo che – come dicevo all’inizio – fa di Elle la lieta sorpresa di una stagione cinematografica tanto avara di autentiche personalità autoriali.

 

ELLE

(Elle, Belgio-Francia-Germania, 2016)  Regia: Paul Verhoeven – Soggetto: da un romanzo Oh… di Philippe Djian – Sceneggiatura: David Birke – Fotografia: Stéphane Fontaine – Musica: Anne Dudley – Scenografia: Laurent Ott – Montaggio: Job ter Burg. Interpreti: Isabelle Huppert (Michèle Lebranc), Laurent Lafitte (Patrick), Anne Consigny (Anna), Charles Berling (Richard), Virginie Efira (Rebecca), Judith Magre (Irène), Christian Berkel (Robert), Jonas Bloquet (Vincent), Vimala Pons (Hélène), Alice Isaaz (Josie).  Distribuzione: Lucky Red – Durata: due ore e 10 minuti

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